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Che cosa significa scendere in piazza, oggi

17 Ottobre 2011

Che cosa significa scendere in piazza, oggi

di

I fatti di Roma lasciano amarezza, frustrazione e interrogativi aperti. Ma forniscono anche il pretesto per ripensare a come cambi l'aggregazione collettiva

Le manifestazioni di piazza, le grandi manifestazioni di massa, sono una forma di attivismo che porta molte persone che condividono una certa opinione a mostrarsi e attraverso il loro mostrarsi a rendere visibile la loro opinione. Essere in piazza ha un significato simbolico e il numero di corpi e la riuscita della partecipazione ha un valore che può essere amplificato dalle rappresentazioni mediali, interpretato dalle forze politiche, raccontato dagli opinionisti eccetera. Le manifestazioni di massa hanno rappresentato nel Novecento un momento fondamentale per lo sviluppo della democrazia; si sono misurate con l’evoluzione dei linguaggi mediali fino a riuscire a interpretare le logiche di notiziabilità che le ha trasformate spesso in happening pieni di inventiva, miscelando la capacità di informazione con quella dell’intrattenimento. «È stata una grande festa», abbiamo spesso sentito dire.

Indignati

Così doveva essere sabato 15 ottobre la presenza degli indignados nelle piazze di tutto il mondo, compresa quella di San Giovanni a Roma. Sono bastati una manciata di corpi incappucciati e le loro azioni ad alto tasso di notiziabilità – auto bruciate, vetrine rotte, lancio di sanpietrini, l’incendio di una camionetta della polizia ecc. – a far sì che una piccola parte desse valore diverso al tutto. Bastano «cento autenticissimi stronzi incappucciati», come li definisce Alessandro Gilioli, oppure come scrive Vittorio Zucconi «un governo che non sa garantire l’ordine e la sicurezza di una manifestazione autorizzata e pacifica nella propria capitale, che non sa prevedere e prevenire quello che tutti noi avevamo temuto, che permette a centinaia di professionisti dello sfascio di arrivare tranquillamente lungo il percorso annunciato della sfilata addirittura con “uniformi nere e maschere antigas”».

Alla fine quello che resta il giorno dopo è l’amarezza e la frustrazione. La speranza che qualche testata racconti l’altra parte della manifestazione, quella dei manifestanti che hanno isolato e consegnato tre “black bloc” (così li chiamano i media) alle forze dell’ordine, quelli che hanno alzato le mani al grido di “no alla violenza” frapponendosi fra forze di Polizia e gli incappucciati, quelli che si sono messi a rimettere a posto cassonetti e tombini, quei giovani, come scrive Mario Calabresi, che abbiamo visto «battere le mani a polizia e carabinieri, li abbiamo visti provare a cacciare dal corteo gli incappucciati, li abbiamo visti piangere di rabbia».

Fraintendimento

È inutile oggi dire che seguendo anche minimamente le modalità organizzative del movimento – modalità che risiedono anche nelle forme auto organizzative della rete – emergeva uno stato di inquietudine e di tensione: basta leggere questo post che è stato commentato dalla lista Italy riportato da Indymedia. Ma si sa, la rete è luogo di esposizione delle differenze, di circolazione delle emozioni e degli umori. Mica la realtà. La realtà è la Piazza. Le grandi manifestazioni di massa. L’attivismo. I corpi. Il mostrarsi. E credo che qui stia il grande fraintendimento che movimento e mezzi di informazione, politica e opinione pubblica stanno osservando.

Le masse del Novecento non sono le moltitudini di oggi. Non abbiamo a che fare con il movimento organizzato della classe operaia, con le grandi organizzazioni politiche. Gli indignati sono una moltitudine che racchiude sotto uno stesso termine ombrello una molteplicità di differenze, anche estreme. Non è possibile il principio di rappresentatività interna, non c’è un leader del movimento da intervistare. È cambiato il soggetto che porta in pubblico la sua opinione, ma i modi che utilizziamo per farlo pensiamo debbano essere ancora gli stessi. Le grandi manifestazioni di piazza sono un retaggio del ‘900. Non c’è bisogno di ostentare e sacrificare i corpi. Di cadere nei rischi della demagogia della politica e della violenza. Non c’è bisogno di diventare ostaggi collettivi di pochi atti di delinquenza. Non c’è bisogno di subire cariche e frapporre la propria non violenza con il proprio corpo. O meglio: non sta solo lì il valore simbolico dell’attivismo, dell’essere partecipi.

Delocalizzazione

La logica e i linguaggi della rete ce lo hanno insegnato nel nostro avere imparato ad abitare il web, ad auto organizzarci, a costruire informazione quotidianamente e a condividerla, ad auto rappresentare le nostre istanze e le nostre opinioni. Certo, non tutti e con tutti i distinguo che volete. Come non tutti sabato erano in piazza rappresentando sé stessi o seguivano la manifestazione da casa attraverso il web o i media mainstream. Ma quello che la rete ci ha insegnato, ad esempio, è creare un nuovo rapporto fra aggregazione collettiva e delocalizzazione. Non c’è bisogno di essere tutti nello stesso luogo per esprimere contemporaneamente la stessa opinione. Possiamo ad esempio rendere visibile il nostro numero aggregando i contenuti da luoghi diversi e fare diventare la nostra opinione un elemento rilevante attraverso un tag.

Sabato scorso la maggior parte dei tweet con hashtag #indignados o #15ott parlavano di Roma e moltissimi venivano dalla manifestazione di Roma. Quella visibilità – #15ott è stato trending topics – la si avrebbe avuta ugualmente se la partecipazione fosse stata diffusa sul territorio italiano, se si fossero ideate mille azioni creative utile alla guerriglia mediale per far parlare di sé in modi non violenti attraverso la messa in scena e l’aggregazione di idee. Possiamo portare la voce dell’indignazione sul territorio senza essere tutti in un unico luogo. Possiamo connetterla senza essere co-presenti. Possiamo partecipare attraverso modi diversi che mostrano sfumature che vanno dal comunicare all’esserci.

Partecipazione

La rete ci ha anche insegnato che possiamo provare a rivedere la nostra idea di partecipazione e di utilità dell’informazione condivisa uscendo fuori dal paradigma novecentesco fatto di attivismo politico in cui il politico coincideva con il partitico e dei media di massa da cui ci siamo lasciati rappresentare – necessariamente – durante la nostra Storia di cittadini. Questo movimento mostra chiaramente l’impossibilità per ogni struttura politica di rappresentare le moltitudini che erano nella piazza. Proviamo allora a chiederci: retwittare è una forma di partecipazione? Commentare gli eventi raccontati dai social network è una forma di partecipazione? Aggregare contenuti è una forma di partecipazione? Aprire i propri spazi sociali online per dare visibilità al racconto degli eventi è una forma di partecipazione? Ad esempio il collettivo Wu Ming dalle pagine del suo blog ci mostra questo punto di vista così:

Visto che abbiamo un blog molto visitato e seguito, e che nella giornata di oggi l’informazione e la controinformazione saranno faccende di vitale importanza e urgenza, mettiamo a disposizione questo spazio. Chi ha seguito le discussioni su Giap delle settimane scorse, sa che abbiamo forti perplessità su come è stata organizzata questa scadenza, ma oggi qualunque perplessità va messa in secondo piano: alla massima libertà di discussione devono seguire la massima unità nell’azione e la solidarietà a chi manifesta. Per cause di forza maggiore, purtroppo non siamo riusciti a scendere a Roma, dunque cerchiamo di renderci utili in altro modo, approntando e implementando strumenti per seguire l’evento. Ricordiamo a tutti che la “visione panoramica” di chi sta fuori è sovente utilissima a salvare il culo a chi sta dentro.

Tweet

È stata una visione profetica la loro o, più semplicemente, consapevole delle incongruenze tra esigenze di rappresentazione della moltitudine – lo slogan mondiale era Occupy Everything – e le scelte di una modalità della tradizione delle masse – la grande manifestazione. La rete ci ha anche mostrato, nel bene e nel male, che è possibile dare visibilità alle differenze anche nella connessione e che è possibile produrre un racconto che parte da quello che si sta vivendo. Così se “guardavamo” la manifestazione di sabato da Twitter e la confrontavamo con quanto emergeva di minuto in minuto dai quotidiani online le immagini sembravano mettere a fuoco cose simili e cose diverse. Un paio per tutte: alcuni siti di news segnalavano come fossero stati “gli incappucciati” ad avere spezzato in due il corteo, mentre da Twitter risultava essere stata la polizia; oppure la sensazione di pericolo creato da camionette delle forze dell’ordine che sfrecciavano pericolosamente, forse in preda al panico di chi le guidava.

E anche la posizione di condanna dall’interno della manifestazione per quello che stava accadendo diventava visibile con estrema lucidità di tweet in tweet: MissEsse «Lo so ke ormai e’ la rabbia ke parla,e siamo arrivati ad1situazione al limite,ma queste scene dalla manifestazione mi danno la nausea #15ott»; Laula76 «a chi fa comodo una manifestazione mandata in vacca?!?! #indignati #15ott»; «tigella: Ma se i “violenti” erano in via Labicana, cosa c’entrano le cariche n piazza San giovanni? #15ott»; rainbowarrior «Tre infiltrati fermati dai manifestanti e consegnati alle forze dell’ordine, continuate così,smascherateli tutti! #15ott», virinthesky«#Roma, Polizia usa idranti contro facinorosi, i manifestanti pacifici applaudono poliziotti ke fermano incapucciati #15ott».

Opinioni

E poi, ovviamente, abbiamo i tanti racconti, video e foto che dal giorno dopo cominciano a essere pubblicati, condivisi e commentati. E se vogliamo andare oltre la crosta del racconto generalista dei media possiamo avventurarci nella moltitudine di storie. Certo costa fatica e tempo. Richiede un impegno che va oltre il lasciarsi raccontare da un tg o dal proprio quotidiano come sono andate le cose. È un racconto che non ci si limita a leggere perché nel ricercare informazioni siamo noi a costruire via via il racconto, magari partecipando con un like o un commento. Magari così non ci limiteremo a parlare di un’occasione perduta o dell’inferno che si è generato, entrambi posizioni consolatorie del tipo buoni contro cattivi. Forse ci toccherebbe confrontarci anche con le opinioni di chi cerca di interpretare la violenza di sabato come una forma estrema dell’indignazione, con chi cerca di capire quale significato ci sia dietro a queste forme di conflitto sociale. Forse ci troveremmo a confrontarci con punti di vista anche forti:

“abbiamo visto distintamente teste rasate col fascio littorio al braccio che gestivano gruppi armati”, “era pieno di gente dello stadio con sciarpe della Roma e della Lazio” sigle ACAB passate dalle curve alla camionetta bruciata, e poi anarchici, cani sciolti, greci, no tav…

Forse ci troveremmo a confrontarci con verità anche scomode e con domande a cui forse non sappiamo rispondere: cosa succede se

Chi si è incappucciato è lo stesso che poi interviene alle assemblee e con le quali siete poi d’accordo, gli stessi che intervengono all’Infedele o da Formigli, chi fa le lotte sociali nelle città e nei luoghi di lavoro [?]… [se] siamo noi, non altri [?].

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