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Perché abbiamo bisogno di serendipity

19 Luglio 2011

Perché abbiamo bisogno di serendipity

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In un sistema sociale che costruisce relazioni sulle somiglianze, abbiamo bisogno di garantirci la possibilità di entrare in contatto con l'inaspettato

Le autostrade dell’informazione ci hanno portato a circolare all’interno di diversi luoghi della rete in cui abbiamo costruito le nostre case-blog, i nostri circoli di incontro-siti di social network, in cui abbiamo imparato a incontrare il gusto degli altri (pensate a cose come Amazon per i libri o LastFm per la musica o Delicious per le notizie che raccogliamo) passeggiando fra i contenuti/commento lasciati da altri utenti. La dimensione spaziale con cui pensiamo alla rete, che ci porta a immaginarla come un’enorme città cosmopolita, è stata indubbiamente influenzata dalle visioni di quei costruttori di immaginari che l’hanno disegnata a partire da una metafora, la città, che rendesse comprensibile un “luogo” a venire.

Metafora spaziale

Ad esempio, come ci spiega Ethan Zuckerman, autori cyberpunk come William Gibson e Neal Stephenson ci hanno entrambi presentato il modo in cui la futura internet si sarebbe presentata ai naviganti (altra metafora di spostamento spaziale) come una città. Ricordate la descrizione del cyberspace in Neuromante di Gibson? «Una rappresentazione grafica di dati ricavati dai banchi di ogni computer del sistema umano. Impensabile complessità. Linee di luce allineate nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni di dati. Come le luci di una città, che si allontanano». Lo stesso vale per il Metaverso descritto da Sthephenson in Snow Crash , in cui avatar 3D camminano in una città fatta di vie, bar, negozi.

Entrambi ci immaginavano interessati a condividere spazi comuni in cui incontrarci e confrontarci in modi cosmopoliti: «Both believed that we’d want to interact in cyberspace in some of the ways we do in cities, experiencing an overload of sensation, a compression in scale, a challenge of picking out signal and noise from information competing for our attention». Le città sarebbero, insomma, dispostivi di serendipità, che ci permettono di incontrare in modo inaspettato cose impreviste mentre ne cerchiamo altre, che garantiscono una vita cosmopolita fatta di incontri casuali con le culture e pratiche diverse, che stimolano, ad esempio con il meticciaggio architetturale e del cibo, il nostro bisogno di mondializzazione.

Somiglianza

Una narrazione della rete, questa, che ha forgiato il nostro immaginario e il modo di raccontare la nostra esperienza online per un po’ di tempo. Finché non ci siamo scontrati con la realtà della vita quotidiana su internet e con il suo trasformarsi in ambiente ad alto tasso di socialità. Allora ci è diventato più chiaro che la metafora della città era calzante, ma per motivi diversi da quelli che avevamo immaginato. Gli studi sugli spazi di attraversamento urbano ci hanno ormai confermato che tendiamo a concentrare le nostre vite in un range di luoghi fatalmente prevedibili (casa-lavoro-hobby), che rappresentano assi routinari attorno ai quali immaginiamo le nostre vite. Le analisi sociologiche hanno poi svelato che la nostra socialità tende a conformarsi secondo un principio per cui è la somiglianza a generare connessione, che è il principio di omofilia.

Le reti sociali tendono a essere omogenee sia per caratteristiche socio-demografiche che comportamentali tanto che l’omofilia limita i nostri mondi sociali in modi che hanno conseguenze rilevanti sulle maniere in cui abbiamo informazioni, sulle attitudini che ci formiamo e sulle interazioni di cui facciamo esperienza. Eppure abbiamo pensato che in rete la serendipità potesse essere più forte dell’omofilia. Basta pensare a quegli incontri casuali di notizie che facciamo spostandoci tra portali e blog o alle persone che incontriamo e che facciamo diventare nostri friend nei siti di social network dopo averli casualmente letti come commenti ad amici eccetera. Solo che i portali che usiamo, i blog che leggiamo, gli amici attorno a cui ci muoviamo tendono ad essere gli stessi per la rete di persone che frequentiamo. Leggiamo i post che i nostri contatti leggono grazie a una selezione di feed Rss che ci costruiscono il nostro piccolo mondo. Le analisi dei comportamenti di acquisto e lettura di Amazon o quelli di LastFM ci mostrano i percorsi di gusto più simili ai nostri. E così via.

Non tutti uguali

Anche la ricerca “pura” attraverso un motore come Google ha cambiato la sua natura. Come ci spiega Eli Pariser: «Oggi Google usa 57 indicatori – dal luogo in cui siamo al browser che stiamo usando al tipo di ricerche che abbiamo fatto in precedenza – per cercare di capire chi siamo e che genere di siti ci piacerebbe visitare. Anche quando non siamo collegati, continua a personalizzare i risultati e a mostrarci le pagine sulle quali probabilmente cliccheremo. Di solito si pensa che facendo una ricerca su Google tutti ottengano gli stessi risultati: quelli che secondo il famoso algoritmo dell’azienda, PageRank, hanno maggiore rilevanza in relazione ai termini cercati. Ma dal dicembre 2009 non è più così. Oggi vediamo i risultati che secondo PageRank sono più adatti a noi, mentre altre persone vedono cose completamente diverse. In poche parole, Google non è più uguale per tutti».

Partiamo da quello che è un dato di fatto, allora: la strada aperta dall’interconnessione tra contenuti e relazioni sociali è da considerare un punto di non ritorno e anche una delle forze del web sociale. Il fatto che questo si traduca in un principio generalizzato di selezione per cui «posso incontrare solo ciò che possono incontrare e non posso incontrare ciò che non posso incontrare» è, invece, qualcosa che non necessariamente dobbiamo accettare. Innanzitutto imparando a non accettare il fatto che «non sappiamo che non possiamo incontrare ciò che non possiamo incontrare». A volte basta poco e dipende anche dai nostri comportamenti.

Più cosmopoliti

Pensate a come usate Facebook e chiedetevi se quando siete in Home usate la modalità “Notizie più popolari” oppure “Più recenti”. Partiamo dal presupposto che comunque stiamo parlando di uno di quei luoghi in cui potete leggere solo contenuti dei vostri friend e non incontrare qualcosa di più sconosciuto, ma immaginiamo anche che nel tempo abbiate un numero tale di contatti che un po’ di serendipità se lo porta dentro, anche attraverso le maglie dell’edgerank. Guardando le notizie più popolari avrete la sensazione che quelli che producono contenuti siano sempre gli stessi, più li seguite e più questi emergono. Se invece scegliete “più recenti” capitano, secondo una logica temporale, anche quegli incontri che risultano più casuali, nel mare di omofilia.

Dobbiamo quindi imparare a ripensare la rete in modo consapevole come un luogo in cui dobbiamo preservare la serendipità, riconoscerla, sperimentarla e pretenderla nella progettazione di interfacce. Solo così il nostro modo di vivere in Rete potrà pretendere di essere un po’ più cosmopolita.

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