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Le radiazioni sociali e il monitoraggio diffuso

08 Aprile 2011

Le radiazioni sociali e il monitoraggio diffuso

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Internet non è solo marketing e social network. È anche essere un volontario, tenere d’occhio l’ambiente e quello che ci raccontano

Il preoccupante e complesso problema dell’incidente nucleare di Fukushima ha riportato alla ribalta un tema caro a chi si occupa della rete e la immagina come strumento non soltanto di marketing né esclusivamente come luogo di fraseggio fra le persone. È il tema di un’internet utile alla società e agli esseri umani, di un’internet di condivisione (asse centrale del suo Dna fino dai sui primi tempi), della diffusione e della pubblicità di dati. Informazioni, certo, ma anche “rilevazioni”. Nello specifico l’esempio più mediatizzato al momento è quello di Rdtn, un aggregatore di rilevazioni della radioattività ambientale, compiute su base volontaria da un buon numero di persone nel mondo.

La radiazione è socialmente attiva

Queste persone, dotate di un contatore Geiger di un qualche tipo, misurano e pubblicano in modo geolocalizzato il dato. Fungendo se volete da rete di allarme per le altre persone, ma anche per le istituzioni, che possono non avere un network di rilevazione così capillare (anche se probabilmente più affidabile dal punto di vista delle dotazioni tecnologiche). Funzionando però anche da cane da guardia rispetto ai sospetti di occultamento della realtà, un controllore che tutela la collettività da tentativi di disinformazione.

Rdtn non è però il solo progetto di radiazione crowdsourced in giro – il tema ha generato altre aggregazioni spontanee, come geigercrowd o Radiation.crowdmap che si affiancano a Geigercounters.com o a Radiation Network e altri. È evidente che il tema della radiazione nucleare ha un potenziale di elevata paranoia derivante dall’elevato rischio percepito – in grado quindi di stimolare aggregazioni di persone che si ergono a guardiani della comunità. In termini più ampi però il monitoraggio ambientale è già una realtà della rete, certo meno glamorous dei social network, ma che conta numerosi esempi: dal monitoraggio volontario dei coralli alle Hawaii alla qualità delle acque.

Ed è la forza dei cittadini che si attrezzano per misurare e condividere, una forza che sia a livello di istituzioni che di Ngo rischia di diventare un punto forte nella comprensione della realtà o della reazione all’emergenza. Una disponibilità da parte di tecnofili che rientra nel campio più ampio del Community Based Monitoring, a volte organizzato proprio dagli enti ufficiali preposti, come nel caso del monitoraggio sociale dei terremoti Did you feel it? organizzato dal United States Geological Survey, anche per migliorare la capacità di prendere decisioni a livello locale.

Il vincolo sono sempre gli umani

L’aspetto volontario, dell’impegno personale a beneficio di tutti è fondamentalmente l’aspetto più bello di questo tipo di progetti. E ne è anche il limite, richiedendo tempo, soldi e fatica da parte degli individui. Che si danno da fare, in attesa che diventi realtà quanto previsto dai teorici dell’internet of things di coloro che da anni teorizzano reti di sensori automatici, capillarmente presenti sul territorio per misurare ed allertare, per dare informazioni che supportino le decisioni. Come per esempio a Venezia o nei progetti che prevedono di usare i dispositivi bluetooth per dare in tempo reale alla comunità le condizioni del traffico, magari appoggiandosi su una infrastruttura come quella di Pachube che intende essere l’abilitatore di schiere di metereologi, lettori di contatori elettrici, monitoratori della qualità dell’aria e orgogliosi possessori di biosensori.

Con una forte probabilità che, al di là di sensori specializzati, installati e gestiti da enti ufficiali, il potere del monitoraggio resti letteralmente nelle mani delle persone – incarnandosi nel cellulare – che potrebbe ad esempio diventare un (ubiquo) tool di monitoraggio del rumore ambientale (e io nel mio piccolo già lo faccio, con il simpatico WideNoise).

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