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Che cosa è in gioco con la neutralità della rete

25 Febbraio 2011

Che cosa è in gioco con la neutralità della rete

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L'annuncio di Telecom Italia, che da marzo limiterà in determinate circostanze la disponibilità di banda sui sistemi peer to peer, riapre un dibattito spesso condizionato da incomprensioni, ma così importante per lo sviluppo futuro della rete

Prendete una notizia in cui c’è qualcuno che limita dall’alto un servizio molto popolare come il peer to peer; aggiungete al minestrone che a farlo è Telecom Italia e il risultato sarà quasi di certo esplosivo. La polemica è assicurata. Potrà colpire, a suon di equivoci, anche due personaggi che hanno sempre sostenuto i diritti degli utenti contro gli arbitri degli operatori. Questa storia ci insegna due cose. Primo, che il tema della neutralità della rete (o del modo cui con gli operatori gestiscono il proprio traffico) sta diventando sempre più centrale. Secondo, che soffre ancora di incomprensioni ed è di difficile divulgazione.

La punta dell’iceberg

Vediamo di fare chiarezza, ma val la pena premettere che probabilmente il caso Telecom Italia è solo la punta dell’iceberg del fenomeno. Certo, è emblematico. Se anche il principale operatore italiano, proprietario della rete, vuole gestire il peer to peer allora significa che il problema è davvero a una svolta. Dall’altra, bisogna riconoscere che sono ben altri i pericoli che, nella gestione degli operatori, minacciano la libertà di internet. E a oggi emergono abbaglianti in un campo specifico: non sulla rete Telecom, ma su quella mobile. Fare chiarezza, si diceva. Per quanto riguarda Telecom, sono tre i punti cardine della questione.

  • Telecom non ha ancora definito quando farà partire le nuove pratiche né esattamente dove. Si sa solo che sarà dopo il primo marzo e che riguarderà un numero «molto limitato» di centrali, in ore del giorno in cui saranno sature. È probabile si tratti solo di parte di quelle non collegate in fibra ottica (circa il 10 % della popolazione).
  • I limiti comunque non renderanno mai impossibile utilizzare i servizi colpiti. Promessa da verificare, ovvio. Ricevo molte lettere di utenti che possono fare peer to peer solo di notte, con alcuni operatori che dichiaratamente lo limitano.
  • Telecom mi dice che non userà tecniche di ispezione profonda dei pacchetti, ma si limiterà a «guardarne il vestito» per capire se si tratta di peer to peer. Punto importante che analizzeremo più avanti.
Trasparenza

Tutto considerato, la questione della neutralità della rete sta prendendo una piega prevista, il che ci porta ad alcuni obiettivi per cui bisognerebbe combattere se si ha a cuore la libertà di internet. Il primo obiettivo è di livello minimo eppure ha ancora ampi margini di miglioramento: la trasparenza. Ad oggi, solo pochi operatori fissi dicono di fare traffic shaping/limitazione della velocità di alcune applicazioni. Lo scrivono nelle caratteristiche delle proprie offerte, ma in modo poco trasparente e con scarsa evidenza. Non dicono in modo esplicito come e quanto limitano il peer to peer.

Per esempio, fa una bella differenza sapere che il peer to peer sarà ridotto a 32 Kbps (pressoché significa bloccarlo) o 128 Kbps (molto lento o non impossibile). Non scrivono inoltre l’elenco completo dei protocolli limitati (solo il peer to peer?). Né specificano se il blocco è in base al protocollo usato o al tipo di applicazione (questa seconda tecnica potrebbe essere discriminatoria nei confronti di specifici servizi). Sono convinto che se tutti i potenziali acquirenti di una connessione fossero messi a parte di questi limiti (qualunque sia il canale di acquisto, online o via call center), le polemiche si ridurrebbero di molto.

Rispetto dei servizi

Il secondo obiettivo è ottenere che nessuna applicazione o tipo di servizio sia reso inutilizzabile dal traffic shaping, in nessun momento del giorno. Non solo il blocco, ma anche un drastico taglio della velocità può impedirne l’uso. Ci si può chiedere se anche la discriminazione tariffaria – fatta da Tim, Wind e Vodafone a danno di VoIP e peer to peer – non sia comunque dannosa per la libertà di internet. A mio avviso sì e non è altro che un escamotage per discriminare indirettamente alcuni servizi sgraditi senza incorrere nell’accusa di censura. Se accettiamo l’idea che per fare certe cose su internet bisogna pagare di più, a seconda del tornaconto dell’operatore, ci apriamo sotto i piedi una voragine. Di questa stregua, nessuno potrà vietare un giorno all’operatore di includere nell’abbonamento il traffico fatto su YouTube e non sulla web tv della Rai (o viceversa), per esempio.

Chi si accorda con l’operatore per essere incluso anche nelle tariffe economiche sarà molto avvantaggiato, perché costerà meno all’utente. Questo problema di discriminazione tariffaria potrebbe essere ridotto se almeno ci fosse una regola: nessun servizio deve essere reso così costoso al punto da essere di fatto inutilizzabile. Ad oggi il VoIP non ha questa fortuna con le offerte (internet su cellulare) di quegli operatori mobili italiani.

Non si guarda nei pacchetti

Il terzo obiettivo è vietare la deep packet inspection. Non c’è una reale necessità di questa tecnica, che d’altro canto impatta sulla privacy e sugli equilibri della rete. Questi tre obiettivi vanno ottenuti grazie a regole, nero su bianco, imposte da istituzioni nazionali ed europee. Al momento c’è soltanto un pacchetto europee di regole tlc che sta per essere recepito, che impone agli operatori trasparenza sulle loro pratiche di gestione traffico e vieta di bloccare i servizi. Ma sono paletti troppo generici e quindi facili da aggirare. Sono inutili, cioè, se non specificano esattamente che cosa l’operatore deve comunicare agli utenti e quali pratiche sono equiparabili a un blocco del servizio (vedi discriminazione tariffaria o forte riduzione della velocità). È la stessa tesi del Beuc, l’organizzazione dei consumatori europei, che qualche giorno fa ha chiesto appunto alla Commissione europea di specificare meglio questi aspetti.

C’è una tesi sostenuta dai maggiori operatori mondiali, con forza crescente: i fornitori di servizi devono pagarci l’utilizzo della rete, altrimenti non potremo investire nelle nuove infrastrutture. Anche ammesso che non ci siano alternative, bisognerà comunque evitare che gli operatori avvantaggino i servizi delle aziende leader (quelli che possono pagare di più) rispetto a quelli delle start up. È soprattutto questo il pericolo da evitare. Ma chi l’ha detto che non ci sia un’alternativa? C’è ed è un impegno di investitori pubblico-privati per investimenti comuni. A questo punto vediamo come si collegano i due temi: l’attuale esigenza di gestire il peer to peer laddove non c’è la fibra e il bisogno di finanziare le reti di nuova generazione. Sono entrambi problemi risolvibili al meglio tramite investimenti comuni, anche dello Stato.

I nuovi esclusi

L’assenza della fibra nelle centrali sarà forse un problema del passato, ben presto. Secondo il ministero allo Sviluppo Economico, Infratel ha portato la fibra vicino alle centrali per l’equivalente di 3 milioni di utenti, dal 2008 a oggi, con fondi pubblici; e coprirà i restanti 5 milioni, in digital divide, entro il 2013. Ma si affaccerà subito un problema più grosso: la discriminazione degli utenti non raggiunti da fibra nelle case. Altro che limiti di velocità peer to peer: i nuovi esclusi non potranno accedere affatto a quei futuri servizi che richiedano la fibra. È una situazione inedita: ad oggi, la stragrande maggioranza degli italiani (circa 90%) è coperta da banda larga. Non ci sono servizi “consumer” di punta impossibili con le comuni Adsl 7 Megabit. In futuro, per la prima volta, ci troveremo a fare i conti con una fetta della popolazione esclusa per forza dalle vette innovative di internet. Sarà pari al 50% della popolazione nel 2020, se non migliorano i piani; cioè se Stato ed enti locali non investiranno di più in infrastrutture di nuova generazione. Come si vede, il bisogno di investimenti condivisi e la tutela di una rete neutrale (cioè non discriminatoria di utenti o servizi) vanno di pari passo, necessariamente.

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