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Imparare in classe può essere un gioco

10 Dicembre 2010

Imparare in classe può essere un gioco

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Il rapporto tra videogiochi e apprendimento continua a stuzzicare osservatori e ricercatori. E intanto le prime console entrano negli istituti scolastici

Con tutta la tecnologia che ci circonda, qualcosa sta cambiando anche nelle forme di insegnamento. Certo, è un versante che a molti potrebbe sembrare in opposizione alla fatica dello studio: prendiamo ad esempio l’introduzione dei videogiochi nelle scuole. Il tema è complesso e abbiamo già avuto modo di parlarne, ma una serie di nuovi stimoli ci forniscono il pretesto per riprendere il discorso.

Tre livelli

Secondo la giornalista americana Elizabeth Corcoran esistono tre tipologie di giochi diffusi in ambito formativo. Un primo gruppo è quello dei classici educational game dalle ambizioni pedagogiche e dal design non sempre efficaci. Si tratta di giochi concepiti per divertire i ragazzi e tenerli impegnati: «Qualsiasi comico vi dirà quanto sia arduo intrattenere la gente a lungo. È ancora più difficile con i giovani che consumano il divertimento di un gioco più in fretta dell’evoluzione stessa dei videogame», commenta Corcoran. Qualche anno fa, invece, alcuni educatori hanno cercato di coinvolgere direttamente gli studenti nella creazione di game e progetti multimediali, come Scratch, sviluppato al Media Lab del MIT, e Kudo di Microsoft, un linguaggio di programmazione per realizzare videogiochi per Xbox. In particolare, racconta la Corcoran, chi realizza giochi con Scratch può ricevere feedback e commenti dagli altri giocatori, il che rende i ragazzi molto motivati a continuare anche dopo la scuola, oltre a essere un ottimo modo per esporli agli strumenti tecnologici.

Infine, in ciò che definisce il terzo approccio, la scrittrice include il termine gamification, ovvero l’utilizzo di sofisticate meccaniche di gioco nelle applicazioni – anche serie o antiquate – per accrescere la motivazione da parte del consumatore/giocatore. È il caso, per citare un esempio attuale, delle piattaforme di geolocalizzazione come Foursquare, costruite intorno alla logica della premiazione (tramite badge, avanzamento di livello) e della condivisione dell’esperienza. E secondo l’autrice dell’articolo, se utilizzato nelle scuole potrebbe accrescere lo spirito competitivo nei ragazzi e «alla fine della giornata, chi sa come creare le regole del gioco, sa anche come vincere».

Valutati per il gioco

Alcuni educatori del Florida State University, tra cui Valerie Shute, docente di psicologia dell’educazione e sistemi dell’apprendimento, ritengono che i videogame possano essere un valido strumento non solo per gli studenti per imparare delle nozioni complesse, ma anche per permettere agli insegnanti di valutare e misurare le abilità di pensiero dei ragazzi, come la creatività, la perseveranza e il pensiero critico. «A tutti piace giocare. E quindi si potrebbe fare molto utilizzando i videogame», commenta Shute. Come ci spiega un altro ricercatore, la tecnica di immergere i ragazzi in un mondo virtuale – e osservarli mentre risolvono compiti complessi – elimina l’ansia e la preoccupazione che in qualche modo possono influenzare la performance degli studenti.

Ed è proprio con questo obiettivo che i docenti dell’università hanno ideato un corso online basato su StarCraft, un videogioco di strategia in tempo reale nel quale più giocatori possono competere online. Di fatto, agli studenti viene richiesto di giocare un paio di ore alla settimana e, in seguito, vengono valutati in base alle loro annotazioni sul gioco, alle decisioni che prendono e alla presentazione finale (online). «Il gioco diventa uno strumento, proprio come un libro di testo», spiega l’insegnate Nate Poling, e trasmette loro importanti abilità (come la strategia, la gestione del rischio, l’uso efficiente delle risorse) applicabili nel mondo reale. Secondo Poling la lezione può essere vista come una parte di un’avvicinamento dell’educazione al mondo dei ragazzi e «i videogame rappresentano una grande parte di ciò che sono gli studenti» ed «è ciò che riflette un corso come questo».

Un luogo eccitante

In realtà lo scenario attuale è persino più ampio. La nostra comprensione di quanto accade nelle aule e nei rapporti tra docenti e discenti è sempre più strutturata. Alva Noë, insegnante, argomenta in un suo lungo post: «Non c’è niente di sbagliato nel lavorare duramente per trasformare la classe nel posto più eccitante. Ma noi non siamo ingegneri sociali e gli studenti non sono prodotti che stiamo fabbricando. Gli studenti, come i cittadini, sono liberi e uguali, e hanno la capacità della ragione». E poi conclude: «Sono un insegnante, non un professionista. Alla base della mia pratica di insegnamento c’è il rispetto per gli studenti. Non cerco di cambiarli. Non cerco di influenzarli. Non cerco di modificarli. Semplicemente cerco di mostrare loro qualcosa per definire un mondo di idee, problemi, letterature e interessi prima di loro. Poi lascio che ne facciano quello che vogliono».

Nelle scuole italiane, invece, spesso non si va al di là della didattica multimediale o del classico edutainment. Anche la pur contestata Mariastella Gelmini si dice fortemente interessata all’aspetto educativo dell’universo digitale e sostiene che «i videogiochi rappresentano un mondo ricco e complesso, dalle grandi potenzialità» e, aggiunge, «un’opportunità per introdurre nella scuola linguaggi digitali e nuove strategie di apprendimento». In fondo non è necessario ricorrere alla provocazione di abolire la scuola e insegnare con i videogame. Basta comprendere che il mondo che abbiamo intorno, gli stimoli che ci offre e le possibilità di inventarci nuove soluzioni per trasmettere conoscenze ed esperienza sono già enormi e tenderanno a crescere. È una sfida importante per l’educazione, che va colta prontamente.

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