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La pubblicità che ci andiamo a cercare

25 Giugno 2010

La pubblicità che ci andiamo a cercare

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Il diffondersi di network e giochi come Foursquare o Gowalla apre la porta a una nuova stagione per il marketing geolocalizzato sui dispositivi mobili, che finalmente potrebbe trovare il modo di decollare sul serio

Quando si iniziò a parlare di pubblicità geolocalizzata sui dispositivi mobili, l’unico modello che sostanzialmente veniva in mente era più o meno questo: passo davanti a un negozio e zac, mi sorprende un sms che mi invita a entrare per vedere i saldi. Passo davanti a un ristorante e zac, a tradimento mi arriva la presentazione del piatto del giorno con un mms. Per un totale, se mi muovo a piedi per il centro, di un centinaio di sms all’ora. Questo modello, francamente, faceva un po’ schifo a tutti: ai consumatori per la sua intrusività, alle agenzie per il pericolo di sovraffollamento, saturazione e rottura di scatole (tutte cose negative per un media), alle aziende… beh, alle aziende non proprio  tutte. Ci sono molte aziende che, se potessero, ci imprimerebbero a fuoco il loro marchio sulla fronte in modo da generare impression, vita natural durante, tutte le volte che ci guardiamo allo specchio. Ma alle aziende serie e che sanno di marketing e comunicazione, questo modello faceva ribrezzo.

Ti loggi, ma perché ti logghi?

Oggi però si intravvede all’orizzonte qualche cambiamento. Intanto ci si è evoluti dal telefonino sms-centrico a piattaforme multimediali. Poi, soprattutto, stiamo cambiando noi e iniziando a fare cose strane. In effetti stanno facendo la loro entrata sul mercato piattaforme di geolocalizzazione autoinflitta – per capirci roba tipo Foursquare o Gowalla. Se negli Stati Uniti Foursquare ha già avuto un bel successo, anche da noi lentamente si vedono i primi segnali di accettazione di queste piattaforme: non passa praticamente giorno senza che qualcuno mi chieda di entrare nel mio network, in modo che entrambi si possa dove siamo in un dato momento.

Ora, dal punto di vista sociologico questo pone interessanti quesiti, primo fra tutti il sempre classico “perché?”. Quesiti ai quali, pur usando questi strumenti, non ho ancora trovato soluzione. Molte delle autolocalizzazioni sono probabilmente messaggi trasversali e criptati, che il pubblico non può capire ma una certa persona sì. Loggandosi si può voler dire “sto arrivando, butta la pasta” oppure “sono in zona, se tuo marito non è in casa, salgo un attimo”. Altri possono essere messaggi attinenti ai propri successi professionali e commerciali, altri il dimostrare il proprio buon gusto in fatto di hotel, ristoranti e luoghi di villeggiatura. E c’è chi prova un profondo senso di soddisfazione nell’essere il sindaco di casa propria o del bar malfamato. Sicuramente, per alcuni, si tratta di una nuova forma di socialità.

Per il resto, però, manca una motivazione pratica e sensata. D’altra parte la tecnologia, lo dico sempre, influenza la società e quindi un’applicazione proposta al pubblico può cambiare il modo in cui il pubblico si comporta, pensa, le idee che gli vengono in testa. Insomma il classico comportamento sociale, che a sua volta apre la porta a nuove applicazioni o a usi dei software non inizialmente previsti: si pensi al solito sms, originariamente nato come strumento di servizio e non di comunicazione fra le persone (parlare è molto più semplice che scrivere, no?).

Esporre il petto alla pubblicità

Dal punto di vista pubblicitario, ora siamo noi che alziamo il capino e ci rendiamo bersagli delle comunicazioni geolocalizzate. Intanto perché diamo la nostra posizione con una precisione che non sempre i Gps o le triangolazioni possono dare, cosa gradita dagli inserzionisti. Poi perché, manifestandoci nei pressi o dentro un luogo, saremo forse più pronti ad accettare pubblicità contestuali, purché abbiano senso. Se sono in un ristorante o in un fast food potrebbe farmi piacere che la gelateria dell’angolo mi proponga di prenderlo da loro, il dessert, magari in promozione. Che se divento sindaco di un posto ricevo un buono sconto.

Gli esempi iniziano ad affiorare anche in Italia: recentemente loggandomi nei pressi di una Web Agency ho ricevuto da loro un messaggio “branding”. Manifestandomi in un bar ho scoperto che il ristorante di fianco aveva un buffet “all you can eat” a 15 euro. Curiosamente queste comunicazioni non mi hanno dato troppo fastidio. Effetto e forza anche della novità o del fatto che sono un addetto ai lavori.Di certo con l’attenuarsi generalizzato della sensibilità alla privacy ci esponiamo sempre di più a essere oggetto di questi messaggi su misura. Possiamo dibattere sulla sensibilità alla privacy, ma se si guardano i testi e le foto che le persone postano su Facebook c’è da domandarsi se – dichiarazioni d’intenti a parte – nella pratica questa sensibilità ci sia ancora o se siamo solo noi intellettuali della Rete che ci poniamo il problema.

Arrivano anche le miglia

La pubblicità geolocalizzata dove ci manifestiamo come bersaglio sembra dunque destinata a essere potenzialmente un campo interessante e c’è già chi ha avuto l’ideona di “aggregare” gli inserzionisti e di darci ulteriori stimoli a stare al gioco. Si chiama TopGuest (ma di certo ne arriveranno altre) ed è né più né meno che una classica raccolta punti o se volete un meccanismo di “miglia”, che ci incentiva a loggarci frequentemente nei pressi di un certo luogo o che ci fa raccogliere  punti aggregando l’esposizione a messaggi di diversi inserzionisti (un po’ come le tessere dei supermercati ci permettono di far punti anche con la benzina, le assicurazioni, i negozietti e così via). Tra l’altro emergono anche storie di successo non soltanto da parte di imprese che usano questo tipo di pubblicità, ma anche da parte di utenti cui Foursquare ha cambiato la vita sociale. Funzionerà? Flopperà? Piacerà? Avessimo le risposte saremmo già ricchi. E se ci piacciono le risposte chiare e le situazioni prevedibili allora lasciamo stare i niu media e torniamo alla pubblicità tradizionale: lì sono circa vent’anni che in sostanza non succede nulla di nuovo.

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