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La nuova consapevolezza dello stare in rete

19 Maggio 2010

La nuova consapevolezza dello stare in rete

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I mal di pancia intorno a Facebook, le preoccupazioni per la privacy, il progetto Diaspora: sta emergendo una contro-narrazione rispetto a quella dominante della prima fase dei social network, che pure lo stesso Facebook ha contribuito a creare

A guardare l’erosione della privacy su Facebook in cinque anni un po’ c’è da preoccuparsi. In particolare l’accelerazione degli ultimi mesi nel rendere disponibili e condivisi moltissimi dati personali (come opzione di default) sembra modificare la percezione culturale che del sito di social network abbiamo. Ma non è solo questo. E non si tratta solo di Facebook.

Certo, Facebook è al momento il territorio di riferimento per un racconto sull’evoluzione dei nostri stati di connessione che cattura l’attenzione di giornalisti e delle tecno élite. Lo è per la sua capacità di essere una metafora efficace delle molte possibilità di produzione e condivisione di contenuti, di mettere in relazione questi contenuti con le persone e le persone tra loro, per avere integrato la forma di comunicazione via mail e quella della chat e per il grado di familiarità che ha saputo creare con milioni di persone nel mondo. Ma la sfida mi sembra essere più radicale e ha a che fare con la narrazione sulle forme delle nostre vite connesse che stiamo costruendo.

Maggiore attenzione

Oggi comincia a emergere una posizione critica, talvolta con toni preoccupati, che si traduce in concreti comportamenti del proprio “stare” nei siti di social network e in atteggiamenti culturali che assume chi si occupa di divulgare e di riflettere sulla mutazione in atto. In particolare i giovani cominciano a prestare estrema attenzione alle modalità del loro abitare la rete e a riflettere consapevolmente sulle tracce che disperdono e su chi può seguirle. Così, come ci racconta uno studio del Pew Internet Project, quelli tra i 18 e i 29 anni si preoccupano di cancellare commenti, rimuovere le tag con le quali vengono associati alle foto e curano i settaggi di privacy più degli adulti. Anche se, come ci mostra una tabella del New York Times, le opzioni di Facebook al riguardo hanno livelli di complessità impressionanti, tanto da rendere problematico capire cosa realmente esponiamo, a chi e in quali modi.

Oppure pensiamo al progetto Diaspora, un social network open source – su cui stanno lavorando quattro studenti del NYU’s Courant Institute – che consente una condivisione di contenuti con controllo totale da parte dell’utente. Gli articoli che li riguardano contengono una narrazione caratterizzata da una sorta di riappropriazione dal basso che si contrappone al colosso Facebook: il New Yortk Times: “Four Nerds and a Cry to Arms Against Facebook”; IT Business Edge: “Diaspora Wants to be the ‘Anti-Facebook’ on Privacy” e così via. Attraverso Kickstarter si stanno facendo supportare in modo diffuso da micro-finanziamenti, che hanno visto oltre 4.000 persone donare da un minimo di 5 a un massimo di 2.000 dollari. In meno di un mese hanno moltiplicato oltre 15 volte l’obiettivo che si erano prefissi: dai 10.000 dollari previsti sono a oggi a oltre 162.000: le persone sono sempre più sensibili al tema.

Consapevolezza

Il fatto è che i social network sono diventati mainstream e aumenta la consapevolezza del fatto che le nostre vite transitano anche attraverso di essi, che abbiamo costruito profili che ci rappresentano impegnando tempo e risorse mentali, che sono un progetto nel quale ci riconosciamo e ci esprimiamo, in cui amiamo ed odiamo. Sono frammenti di vita, non fiction. La narrazione dominante della fase iniziale era ispirata a un mix tra immaginario della frontiera, territorio di grandi promesse per i singoli individui e mito della connessione in pubblico, vantaggi della condivisione e trasparenza di contenuti, realizzazione dell’utopia dell’intelligenza collettiva anni ’90. Si tratta di una narrazione supportata da molti esperti e giornalisti, come spesso accade quando si crea un connubio tra innovazione e coolness che emerge dai micro racconti degli early adopter.

In questa fase di social networking di massa si sta diffondendo una forte contro-narrazione rispetto a quella della “trasparenza assoluta” che Zuckerberg e soci hanno costruito. Alcune tracce cominciamo a vederle anche nella parte italiana della rete, spuntate come una “urgenza” in queste ultime ore come nuovi racconti su Facebook, varianti di una stessa nuova narrazione.

Racconti

C’è il racconto di un nuovo territorio in cui cominciamo ad abitare consapevolmente come cittadini e ci porta a rivendicare i nostri diritti di cittadinanza. Giuseppe Granieri sottolinea come ci troviamo «nel bel mezzo di una delle nuove forme di cittadinanza politica […] una delle nuove situazioni generate dal nostro spostamento di tempo vitale in uno spazio immateriale […] Quello che sta succedendo a Facebook oggi è assimilabile ad un movimento di opinione che sta cercando di fare pressione al Governo affinché cambi le sue politiche.».

C’è quello che sottolinea la necessità di diventare consapevoli del valore delle proprie connessioni e contenuti e del diritto di sottrarsi a uno sguardo continuo che regala informazioni su di noi, sui nostri comportamenti, sui nostri gusti eccetera, con il rischio di diventare inconsapevoli dati per il marketing (ma non solo). Luca De Biase spiega come «le persone si stiano rendendo conto che l’unico modo per usare Facebook e mantenere uno spazio per sé, senza essere continuamente osservati da chissà chi, sia quello di maturare una consapevolezza del mezzo e postare solo quello che si pensa possa essere pubblico». Massimo Mantellini dice che «simili grandi numeri consigliano una attenta osservazione critica delle scelte del social network: la società non da ieri si è resa protagonista di piccoli e grandi dimenticanze nei confronti dei diritti dei propri utenti. […] Facebook ha ormai un numero di utenti che ha superato quello dell’America del Sud. Le scelte commerciali di una società di dimensioni simili devono avere una attenzione pubblica proporzionata alle sue ormai continentali dimensioni».

C’è il racconto di una frontiera che perde la sua natura di spazio di innovazione rischiando di essere irreggimentata entro le maglie di chi la comincia a paragonare a un servizio pubblico. Scrive Fabio Giglietto: «L’idea di considerare Facebook un servizio pubblico da regolamentare mi trova tuttavia contrario. Se la campagna […] è finalizzata a mettere in guardia gli utenti del social network circa i rischi di sovraesposizione volontaria, ben venga. Ma regolamentare un servizio privato basato su Internet non mi convince».

E c’è il racconto del tradimento del patto con gli utenti delle origini, quando Facebook aveva creato un ambiente essenzialmente privato in cui solo la tua autorizzazione poteva concedere aperture. Paolo Attivissimo ci spiega che «è per questa inversione completa di rotta che gli utenti e le autorità stanno protestando. La domanda di fondo, alla fine, è molto semplice: qual è il beneficio per gli utenti in tutto questo? Poi ne nascono altre: perché deve essere così complicato tenere i contatti con gli amici senza farsi tormentare da applicazioni ficcanaso, e perché le regole cambiano in continuazione?».

Privilegiati

Ma la posizione più accorata mi sembra venire da danah boyd in un appassionato post, quasi un appello, in cui spiega come l’atteggiamento di Facebook sia quello di chi sa cosa è meglio per la società e per gli individui, mentre in realtà si sta rivolgendo a classi privilegiate:

What pisses me off the most are the numbers of people who feel trapped. Not because they don’t have another choice. (Technically, they do.) But because they feel like they don’t. They have invested time, energy, resources, into building Facebook what it is. They don’t trust the service, are concerned about it, and are just hoping the problems will go away. It pains me how many people are living like ostriches. If we don’t look, it doesn’t exist, right?? This isn’t good for society. Forcing people into being exposed isn’t good for society. Outting people isn’t good for society, turning people into mini-celebrities isn’t good for society. It isn’t good for individuals either. The psychological harm can be great. Just think of how many “heros” have killed themselves following the high levels of publicity they received.

Gestire lo stato di sovra-esposizione quotidiana, esporsi ai rischi della micro fama, abitare la propria dimensione pubblica senza averne gli strumenti ed essere costretti a farlo in modo (quasi) inconsapevole deve farci pensare, proprio perché non si tratta di fiction ma di vita vissuta. Eppure lo stato del racconto che si sta creando attorno a Facebook (sia quello generato dai media che dalla classe manageriale della piattaforma) è un terreno delicato che ha a che fare con una sfida futura di consapevolezza e informazione: l’informazione sui modi e sulle forme di visibilità che abbiamo in rete e che abbiamo in quanto dipendiamo dai contenuti che produciamo e che ci connettono agli altri; la consapevolezza che l’orizzonte di libertà contenuto nei nostri profili è un dominio di disciplinamento in cui ci muoviamo fra le sole possibilità permesse dalle tecnologie e lo sfruttamento della nostra creatività che trasforma i nostri doni in possibilità di business.

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