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Conversazione sì, ma soprattutto promozioni

13 Novembre 2009

Conversazione sì, ma soprattutto promozioni

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Prendendo come spunto una recente ricerca di Razorfish, facciamo qualche riflessione markettara sul ruolo e l’uso dei social media nel business aziendale

Secondo una recente ricerca di Razorfish, rispettabilissima agenzia internazionale di new media, i social media – almeno negli Stati Uniti – funzionerebbero in termini  di business non solo per la relazione con la marca ma anche, e molto, per le promozioni. Il report (liberamente scaricabile) credo sia destinato ad accendere qualche discussione nel mondo del marketing online, gettando nuove luci su uno degli assunti blindati del social media. Gran parte della conversazione online sulla novità e le potenzialità dei social media si è svolta su basi molto ideologiche (e lo dico in senso altamente positivo), ovvero sulla capacità di questi strumenti di attivare quel tipo di conversazione tra persone e marche che il consumatore moderno più o meno disperatamente cercava e che gli era sempre stata negata.

L’arrivo di Internet, del web prima e di tutte le varie strumentazioni conversazionali poi, ha permesso l’instaurarsi di una conversazione orizzontale, spesso centrata su marche e prodotti, spesso vertente sulla scarsa capacità di dialogo delle aziende con il mercato, ovvero con persone che le marche dicono di amare, che sostengono essere al centro del proprio destino, il focus della propria ragione d’esistere. E il consumatore allora ha detto: se mi ami tanto, perché non vuoi mai parlare con me? Di qui l’aspettativa di uno scenario rivoluzionario: passare dall’esclusivo ricorso a mezzi top down (pubblicità, direct marketing: si veda questo filmato sulla relazione tra advertiser e consumatore) all’utilizzo di Facebook, Twitter e tutto il resto per parlare, con voce più umana, di cose rilevanti, coinvolgendo la gente nel discorso. E di buoni esempi, anche in Italia non ne sono mancati.

Mai sottovalutare l’avidità

Ora, la suddetta ricerca (made in Usa, quindi da prendere sempre con le molle) mostrerebbe che in realtà almeno per un certo aspetto le persone saranno più “social”, ma sono sempre egualmente avide, se mi passate il termine. E che l’engagement ottenuto online dai mezzi sociali si attiverebbe più facilmente facendo ricorso ai buoni, vecchi sconti, promozioni e offerte speciali. Già lo si era in parte capito: basta guardare il successo di Dell, azienda che ha una trentina  di attività su Twitter, prendendo un paio esempi a caso. Digital Nomads, il tweet di Dell dedicato al nomadismo digitale, ha circa 4.700 followers, IdeaStorm poco più di mille; il suo outlet (occasioni, refurbished eccetera) è attorno al milione e quattro. Una bella differenza.

La ricerca cita specificamente il caso di WholeFoods con un milione e mezzo di followers, come alimentato da offerte speciali e suggerimenti utili (se però lo andiamo a vedere risulta che si parla di prodotti e si risponde alla gente: da quel che vedo c’è molta più conversazione che promozione). E si parla di StarBucks che con oltre 483.000 utenti usa sì il canale per parlare di prodotti (e ci mancherebbe altro), ma senza pregiudicare l’aspetto conversazionale, mentre su Facebook raccoglie 5 milioni di utenti su Facebook, stimolati da coupon per prodotti gratis. D’altra parte dalla ricerca emerge che il 44% segue una marca su Twitter principalmente per offerte e iniziative simili, percentuale che scende al 37% per Facebook e MySpace. Sono numeri che fanno dire ai ricercatori: «Non è tanto una questione di passione condivisa per un marchio: più spesso è un puro e semplice fatto di buone occasioni».

Fiato ai conservatori

C’è di che dare fiato alle schiere più conservatrici del marketing online. È evidente a tutti che, spesso in perfetta buona fede e a volte avendo perfettamente ragione rispetto al proprio mercato, molte aziende fanno sforzi eroici per ricondurre la comunicazione digitale ai paradigmi della comunicazione tradizionale, a quell’advertising che ha molti decenni di storia e teoria alle spalle. Un carico di conoscenze e competenze che per molti è difficile e sbagliato gettarsi alle spalle: più giusto (e semplice) applicare modelli consueti a mezzi inconsueti, mettendo talvolta in dubbio le analisi che vorrebbero i consumatori profondamente cambiati (e in realtà, ne abbiamo parlato spesso, è cambiata solo una parte di essi: resta da vedere se è quella che oggi interessa a noi o meno).

C’è la tentazione o la scelta di rifare le stesse cose in modi nuovi, di riproporre il concetto che in fondo se il cliente propone è sempre l’azienda che dispone, magari dandosi una verniciata più social ma perseguendo le stesse pratiche. Per certi cluster di consumatori questo comportamento si più rivelare perfettamente valido, dal momento che solo una metà degli italiani è su internet, molti meno utilizzano i social network e ancora meno provano un impellente bisogno di parlare con le marche. Spesso ci si accontenta di sapere che cosa dicono gli altri consumatori, senza prendere in conto la legittima voce dell’azienda stessa e sentire che cosa ha da dire. E di conversazione dal basso ce n’è tanta, se il  73% degli intervistati dichiara di aver postato una recensione su una marca su Amazon, Twitter, Facebook.

Questione di target

Il problema è sempre quello: capire chi è il nostro target, il target di oggi e dell’anno prossimo, con la progressiva calata sul mercato di nativi sempre più digitali e acculturati. Se parliamo alla massa che compra in modo acritico (e che però magari sta passando, complice la crisi, agli hard discount o alle marche dei supermercati, meno care e percepite altrettanto buone, marche da cui non ci si aspetta più di tanto una conversazione, sospetto) tanti discorsi social hanno poco senso o sono soldi buttati, almeno in quel breve periodo che domina di questi tempi tanti piani di business orientati a passare la nottata. Il potere dei social media, comunque, si tratti di relazione o promozione, non pare essere in discussione, se il 65% degli intervistati dichiara di essere stato influenzato (in bene o in male) da una interazione digitale con una marca. E se il 64% ha effettuato il suo primo acquisto di un prodotto come risultato di una di queste interazioni digitali.

Resta ancora da capire, dunque, quale sia il ruolo che le promozioni devono giocare (a noi tutti fa piacere lo sconto, ammettiamolo) e quale quello del branding e della relazione. Dato che da decenni sappiamo che troppa promozione fa male alla marca perché la svaluta, ma che nessuna promozione fa male alle vendite a breve quando c’è da raggiungere gli obiettivi del piano, ci si ripropone il solito, vecchio pasticcio: la verità che porta al successo il business è la fuori, solo che è difficile da vedere, non è uguale per tutti i casi e richiede necessariamente la fatica di riflettere ed esaminare la novità, anche solo per poi decidere che nel nostro caso il business è come prima e nulla è cambiato. Almeno per ora. Almeno per riconoscere il momento in cui quell’ora non è più valida perché il mondo è cambiato tanto, al punto di coinvolgere anche i nostri clienti.

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