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Lynch e quell’America raccontata a bassa voce

28 Settembre 2009

Lynch e quell’America raccontata a bassa voce

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Un progetto prodotto dal regista di Mullholland Drive ci accompagna in un viaggio attraverso gli Stati Uniti, tra gente semplice e un po' marginale

Parigi 1854, all’Exposition Universelle viene presentata l’opera di un pittore francese piuttosto controverso. L’opera rappresenta lo stesso pittore incontrare il proprio mecenate, il signor Bruyas, presso un crocicchio di sentieri nella campagna di Montpellier. Il titolo originale dell’opera, “l’incontro”, venne subito dimenticato a favore di un più colloquiale “Bonjour, Monsieur Courbet”. Gustave Courbet, aveva colpito ancora. Certo con il nostro parametro odierno dello scandaloso è difficile capire perché l’opera provocasse tante discussioni. Niente nudi, niente offese alla morale o alla religione. Ciò che scandalizzava e spaventava era l’evidenza che l’arte non trasformava più la realtà in qualche cosa di nobile o significativo. Non istruiva, non ammoniva, non glorificava. Le figure stavano semplicemente lì, sulla tela, a registrare uno dei tanti momenti quotidiani di una vita men che comune. Era l’inizio di un’epoca. Anche la letteratura avrebbe presto cominciato a scendere nelle strade delle città fangose, ricettacolo di derelitti e di sogni infranti. La realtà non poteva più essere nascosta.

Non sono pochi quelli che credono che la Storia proceda a salti. Movimenti improvvisi e imprevedibili che la fanno sterzare o accelerare verso direzioni poco prima imprevedibili. A volte sono gli strumenti ad accendere la miccia: il fuoco, la scrittura, la macchina a vapore, l’elettricità, il personal computer. Ma a volte sono movimenti minuscoli, un’immagine, una voce, un colpo d’occhio che apre paesaggi prima invisibili. Sono eventi che al momento possono sembrare piccoli, marginali e senza conseguenze. Ma sono eventi gravidi: invece di provocare salti, rosicchiano un po’ alla volta il modo di vedere il mondo e quando ci si accorge, il cambiamento è già avvenuto. Il modo migliore per comprendere questi eventi è rimanere in ascolto. Non fare altro che raccogliere i segnali che ci sfilano di fronte.

Pezzi facili

Qualche secolo dopo l’incontro rappresentato da Courbet ecco una raccolta di incontri che potremmo parafrasare “Hi, mister Lynch”. Cominciato nel giugno del 2009, Interview Project è un’ idea realizzata da Jason S. e Adrian Lynch, prodotta dal padre di quest’ultimo David Lynch, il celebre autore di capolavori come Mullholland Drive o il popolare serial Twin Peaks. Una troupe di pochi elementi ha viaggiato per migliaia di chilometri per oltre 70 giorni lungo gli Stati Uniti, alla ricerca di un centinaio di persone da intervistare in video. Persone incontrate per caso lungo il viaggio senza un piano, affidando al caso la scelta delle storie da registrare. Gente incontrata negli alberghi come i coniugi Calloways (Louisiana), nei caffè come Louis (Colorado) o mentre si recano in bicicletta al negozi di liquori come Kelly Eugene Guinn (Oklahoma).

È il ritratto di un’America meno scintillante e svuotata di luccicanti speranze, meno impegnata ad esportare la propria idea di democrazia, più disperatamente attaccata a brandelli di dignità. Gente che non legge il New York Times, che non è sfiorata dal crollo di Lehman Brothers, per la quale l’età dell’accesso creata dalla rete è un mistero quasi del tutto irrisolto. È soprattutto un ritratto che non dimostra nulla, che non avalla alcuna idea o preconcetto. Non c’è il sogno americano e neppure la sua negazione. Non è la prima volta che l’America ha il coraggio di scavare a fondo, di esporre le proprie foto di famiglia attraverso le storie della cosiddetta gente semplice. Sessanta anni prima lo aveva fatto Woody Guthrie che aveva cantato l’altra faccia del New Deal, quel sogno di speranza messo in piedi da un altro presidente democratico. Guthrie raccolse le ferite del periodo e le mise in rima in canzoni di quel blues familiare e accessibile. Così come le piccole storie di Raymond Carver avevano raccontato di soggiorni modesti, di lavori saltuari, di piccole emozioni lunari.

I microdocumentari che compongono Interview Project, sono lunghi circa tre-cinque minuti e raccontano con sottigliezza, un montaggio sapiente e tagliente. Ognuno di essi è introdotto personalmente da David Lynch che con una sola frase riassume il senso dell’intervista, chiudendo con un laconico “enjoy the interview”. Anche qui nessuna riflessione astrusa o linea politica da difendere, solo la testimonianza dell’amore per la storia altrui. Il sito è in linea con le tendenze del web 2.0: le storie si possono condividere. Ma non importa. Si resta li a guardare, ad ascoltare quei racconti, senza interrompere, come di fronte ad un focolare o una birra. È in questo tipo di progetti che la rete dimostra tutta la sua potenzialità di ridare voce alla nostra umanità, quel tipo di progresso che invece di diventare una protesi per “aumentare” l’essere umano, gli restituisce i ritmi, le voci e l’indeterminatezza di un incontro casuale e ricchissimo.

Tempo, tempi

I brevi video vengono pubblicati uno alla volta, uno ogni tre giorni, per rispettare anche se simbolicamente il ritmo della scoperta, il tempo dell’attesa. Il tempo è uno dei lussi della rete. Non vincolata dagli standard del cinema e neppure dalla programmazione di un palinsesto giornaliero, la rete può usare il tempo come un elemento significativo. Come fece il nipote del soldato William Henry Bonser Lamin, il ragazzo inglese che, trovate le lettere del nonno combattente della Prima Guerra Mondiale decise di ripubblicarle una ad una su un blog, rispettando le date di invio. Un blog che rimase deserto per giorni, a volte settimane, riflettendo ciò che quelle lettere evocavano di più: l’angoscia dell’attesa di chi era a casa aspettando notizie dal fronte. Nel progetto di Lynch invece è il senso dell’occasione a scandire il tempo. La consapevolezza che i momenti intensi bisogna saperli aspettare, con pazienza.

La rete non è più solo il luogo del qui e ora, della realtà descritta dagli Rss ma è anche il luogo dove il tempo e lo spazio possono assumere di nuovo una forma solida, come quando si viaggiava a piedi e si imparavano cose che il caso ci metteva a disposizione. Un luogo dove esercitarsi ad ascoltare le piccole storie che scandiscono il lento ma inesorabile movimento dell’intera umanità.

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