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La nostra storia in centosessanta caratteri

21 Settembre 2009

La nostra storia in centosessanta caratteri

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Erodoto diceva che l'intento della sua narrazione era impedire che le conquiste degli esseri umani venissero dimenticate. Che cosa si saprà di noi tra qualche tempo, se abbiamo a disposizione soltanto poche parole per descrivere la complessità del mondo che ci circonda?

Chissà se il soldato che componeva versi tra le trincee della Francia immaginava che tra i suoi più affezionati estimatori avrebbe annoverato generazioni di studenti innamorati, non tanto della sua poetica quanto della sua brevità? Si sta come d’autunno sugli alberi, le foglie. Bisogna ammetterlo: quando nel programma si arrivava a Ungaretti si tirava un sospiro di sollievo. Imparare a memoria una sua poesia era una passeggiata. La quantità non è sempre la qualità.

La brevità è una tendenza inesorabile dei nostri tempi. La sintesi, la semplicità richieste all’informazione riflettono il ritmo sincopato del mondo contemporaneo. Sincopato dalla velocità di trasmissione e dalla molteplicità delle fonti. Una brevità enfatizzata dal celebre pubblicitario sir Maurice Saatchi che in un articolo per il Financial Times ebbe a suggerire la singola parola come lunghezza preferibile per un messaggio. Non c’è più spazio per il Tamigi nebbioso raccontato da Dickens o per gli elenchi meticolosi delle derrate che entrano a Parigi di Emile Zola. La sottile arte della ricostruzione narrativa porta irrimediabilmente allo sbadiglio. Il testo si riduce all’essenziale.

Breve

Tutto è cominciato con lo schermo del computer, uno strumento inadatto alla lettura. Il buonsenso suggerisce di ridurre la quantità di testo (c’è chi ancora non lo ha capito), dividere in paragrafi, usare grassetti e altri espedienti grafici per allentare la pressione. La mail, strumento principe della comunicazione contemporanea perde gli orpelli formali (da “egregio Dottore”, a “nell’occasione porgo…”) e si asciuga in una trasmissione secca ed efficace. E nei telefonini, che dal 1992 adottano il short message service, il testo viene ulteriormente ridotto. 160 caratteri max. E che dire dei giornali? La carta costa, l’attenzione è merce rara. Si riducono gli spazi e dunque le parole. Infine un tributo lo si paga alla “società dell’immagine” per cui un’immagine vale più di mille parole. Che mille non sono più.

Se hai un minuto ti dico

Il racconto è il modo con cui i gruppi umani hanno condiviso, capitalizzato, ricordato le esperienze. Il racconto è la forma in grado di trasmettere informazioni ed emozioni, non solo dati. Il racconto ha bisogno di una scansione temporale che va costruita un po’ alla volta con anticipazioni, ripetizioni, momenti di pausa, sospensioni, accelerazioni. Gli esseri umani si sono esercitati per millenni in questa arte di catalizzare l’attenzione dei propri simili facendogli rivivere gli eventi corredati con l’intera gamma delle emozioni. Basta un autobus affollato per toccare con mano la naturale abilità nel raccontare dei nostri simili. Vedrete nascere e svilupparsi personaggi e avventure narrate con maestria e persino un tocco di istrionismo. Eppure nel nostro contemporaneo sembra non esserci più il tempo affinché un racconto possa crescere. Il paesaggio della narrazione si sta trasformando come certi boschi naturali, sostituiti dalle efficienti piantagioni di alberi a crescita veloce. E di rapido consumo.

UN UOMO ENTRA IN UN CAFFE…

Ma che cultura è quella che si racconta in brevi storie a volte brevissime? Nella storia della letteratura ci sono diversi esempi. Generi marginali, popolari, spesso trascurati dalla cultura “alta”. Le filastrocche, i proverbi, le canzoni, le barzellette, il limerick, l’haiku. Una forma di comunicazione che si comprime nell’evocazione: le parole sono frammenti di paesaggi che sarà il lettore a completare. Un genere di narrazione che ha bisogno di crescere su un contesto comune fortemente condiviso, nel quale simboli, richiami e significati devono essere conosciuti. Diversamente il meccanismo non scatta e “Bocca di Rosa” non rimane che l’orifizio d’entrata dell’apparato digerente di un essere umano di sesso femminile chiamato come l’inflorescenza di un arbusto spinoso.

…SPLASH!

Gli status di Facebook (micro racconti del proprio essere) sono un campo di esercizio del racconto essenziale. Frasi brillanti, dotate di una certa ironia o sentenze oscure, comprensibili soltanto a un ristretto gruppo di persone. Un esercizio che tenta di fissare un momento, una sensazione, un evento con un limitato numero di parole, una esclamazione. Un esercizio di sintesi al quale talvolta ci si arrende utilizzando lo status per ospitare un link nel quale approfondire. Ma come si può sintetizzare il testo cercando di non perdere l’essenziale? Lo strumento più importante per la sintesi dovrebbe essere un vocabolario preciso. Ma quanti sanno che obiettivo non è lo stesso di obbiettivo e che rosso può essere cremisi, vermiglio, porpora, carminio, malva, scarlatto? La lingua comune è piena di imprecisioni e approssimazioni che grazie al tempo per poter spiegare è rimasto un problema marginale.

Distillare le emozioni attraverso le parole è una abilità sottile che non tutti hanno il tempo o il talento di coltivare (di Ungaretti ce n’è uno solo). Si può ricorrere ad una sorta di surrogato grafico dell’emotività: il maiuscolo per alzare la voce e le emoticons per esprimere stati d’animo. Una tecnica entrata persino nella letteratura contemporanea, come in Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer (o nei libri di Geronimo Stilton) dove la tipografia e l’impaginazione del testo sono parti della sintassi emotiva.

RASK

Facendo un confronto con i maestri della letteratura scopriamo è la descrizione la parte che richiede più lavoro e spazio. A che cosa serve la descrizione? A contestualizzare, a costruire con il lettore l’ambiente nel quale le azioni dei personaggi assumono un significato. È il terreno nel quale la narrazione può crescere ed esprimersi nella sua interezza e non rimanere una semplice trasmissione di dati. Il mondo squallido e disperato dello studente Raskol’nikov trasforma l’omicidio che compie in un atto al limite della comprensione. Nel mondo della brevità sarebbe diventato: Delitto + castigo: Raskolnikov studente tormentato uccide vecchia usuraia e sorella. Si pente e grazie a Sonja scopre l’amore. Ma finisce in Siveria. Molto, molto meno del travaglio che ha reso la coscienza dello studente un tema attuale a quasi cento cinquanta anni dalla sua creazione.

Senza contesto le frasi fluttuano, si ricompongono in significati che neppure ci si immagina. Un po’ come la linea narrativa di Blob, lo storico programma di Rai 3, che ricostruisce il senso appiccicando come in un puzzle pezzetti di storie prese qua e là. Che cosa resterà della società che si racconta in centosessanta caratteri? O delle biografie sezionate in schegge biografiche dal titolo ossessivo “what are you doing now”? Come verrà ricordata una civiltà che non ha il tempo di descriversi? Forse rimarranno frasi talmente oscure, che nel futuro potranno essere interpretate liberamente, come è accaduto ai filosofi presocratici («nessun uomo può bagnarsi nelo stesso fiume»). Ci verranno attribuite perle di saggezza o idee crudeli che nemmeno avevamo in mente. Oppure rimarranno gioielli di sintesi dall’involontario risvolto comico come per il titolo de La Stampa di Torino di qualche anno fa: “Trovato il cadavere del cinese, è giallo”. (La Stampa di Torino si ripropose l’anno scorso con “Sugli immigrati stretta di Maroni”).

VOLEVO DIRE

Ogni civiltà è un miscuglio di ragione e sentimento, di pensiero e intuizione, di scienza e fede. Non la si può ridurre ad una semplice raccolta di dati. La Prima Guerra Mondiale fu certamente un conflitto nel quale furono coinvolti 61.526.000 soldati e che provocò 16,543,185 di vittime ma fu anche una ferita profonda nell’anima di semplici soldati che senza le storie raccontate da Hemingway e Ungaretti avremmo dimenticato appena l’ultimo testimone oculare avesse lasciato questo mondo. Ma forse il testo breve, il post da blog, la sintesi fa paura solo perché vittima di un vecchio pregiudizio letterario.

SHORT STORIES

Da almeno un paio di secoli (e forse qualche cosa in più) è il romanzo la forma di narrazione nella quale la nostra società ha creduto di rappresentarsi meglio. La prosa, le lunghe vicende, i personaggi complessi che rivelano pagina dopo pagina le sfumature del carattere, le contraddizioni. Un percorso che accompagna il lettore lungo la complessità del mondo moderno. Così il settecento si è riconosciuto nelle opere di Swift, Goethe, Defoe l’ottocento in quelle di Hugo, Zola, Tostoj, Dickens, il novecento in quelle di Svevo, Mann, Joyce, Musil, Proust.

Il racconto breve, al contrario, è stato considerato un fratello minore, una sorta di palestra nella quale affilare le armi della scrittura nell’attesa del grande salto. Poco più delle lettere o delle raccolte di articoli. Eppure grandi scrittori hanno dedicato l’intera vita narrativa alla forma del racconto breve. Autori come Isaac Babe’l, Raymond Carver, David Sedaris e Anton Cechov tra gli altri. Malgrado fosse autore di capolavori Cechov faticò a considerarsi un vero scrittore e Carver si è sentì in dovere di giustificare la sua attitudine alle short stories. Forse la loro sfortuna era essere circondati da colleghi del calibro di Tolstoj, Keouac, Dostoevskij e Hemingway che sfornavano tomi consistenti con una certa caparbietà. Lo scrittore-medico russo e il suo collega americano si sarebbero trovato molto meglio ai nostri tempi. I tempi dei testi brevi.

TVTTB?

Forse sarà solo necessario abituarsi a pensare che le tracce che lasceremo non saranno più ricche di descrizioni, di personaggi che occupano pagine e pagine. Vicende e personaggi solidi, precisi, definitivi, scolpiti dalla scrittura e resi immutabili dalla stampa sulla carta. La nostra storia non sarà ricomposta da un singolo poeta in grado di raccogliere, organizzare, contestualizzare l’agitazione della quotidianità. Il racconto della nostra storia sarà un racconto collettivo. Frammenti, numerosi e minuscoli che, letti tutti insieme, anche un po’ a caso, ritrarranno il nostro essere in un unico immenso puzzle, brulicante, contraddittorio e mutevole. Proprio com’è la natura umana.

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