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La banda larga richiede matrimoni

02 Aprile 2009

La banda larga richiede matrimoni

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Per migliorare le prestazioni e contenere i costi, la strada che sta prendendo piede è la condivisione dei network. "One network" anche sulla rete mobile?

C’è una tendenza forte in atto in Europa: quella della condivisione dei network da parte degli operatori mobili. Ci accompagnerà nei prossimi anni, in un crescendo, che intreccerà il proprio destino con quello della rete fissa, che pure è attraversata da analoghe tendenze. L’ultima notizia riguarda, a fine marzo, due pesi massimi delle tlc: Vodafone e Telefonica. Hanno acconsentito di condividere i propri siti, dove ci sono le antenne per il servizio mobile, in Spagna, Germania, Irlanda e Regno Unito (in futuro, in Repubblica Ceca). Significa che uno stesso sito potrà essere usato per i servizi di più operatori. Negli ultimi due anni ci sono stati accordi simili, ma mai di questa portata pan europea. Nel Regno Unito ce ne sono stati due. Uno è di O2 (di Telefonica) e Vodafone, che hanno cominciato a condividere i propri siti, con l’obiettivo di ridurli del 25%; l’altro è di 3 UK e T-Mobile. In Spagna l’hanno fatto Orange e Vodafone, ma solo nelle aree rurali. In Italia si sono accordati Vodafone e Tim.  Pionieri sono stati, nel 2001, Tele2 e Telia Sonera in Svezia.

Come notano gli analisti di Ovum, c’è una differenza sostanziale tra questi accordi. Quello in Italia e quest’ultimo tra Telefonica e Vodafone sono di semplice “site sharing”, mentre gli altri riguardano anche parte della rete (il Radio access network). La distinzione è tra condivisione di infrastrutture passive e condivisione anche degli elementi attivi della rete. Accordi di questo tipo, finora, sono stati comuni nelle zone periferiche e soprattutto nei Paesi in via di sviluppo – nota Ovum – perché lì le prospettive di ricavo sono sempre state ridotte a lumicino; gli operatori hanno bisogno di condividere l’investimento per tenere basse le spese e mirare così al profitto. Questo scenario tende però a estendersi anche nelle aree metropolitane e si vedranno sempre più accordi analoghi, anche di condivisione attiva.

I motivi sono molteplici ma si possono riassumere così: questo sta diventando un business difficile. «I profitti generosi degli anni passati sono un ricordo. I prezzi vanno in picchiata. In più, gli operatori devono adeguare le proprie reti a nuove tendenze: il boom di traffico dati, diretto dal successo delle chiavette modem usb per navigare su rete mobile su computer portatili. E, in prospettiva, dalla crescente popolarità di internet via cellulare grazie a nuovi terminali ottimizzati per il browsing, come quelli Android», spiega Emeka Obiodu, analista di Ovum. Per dare più banda agli utenti e più capacità, servono (anche) nuove antenne. «A tutto si aggiunge il fatto che le reti vanno verso la Long term evolution, che pure richiede siti addizionali», continua.

Le nuove frequenze su cui gli operatori potranno contare presto, come estensione delle attuali, intorno ai 2 GHz, permetteranno sì di offrire altra capacità agli utenti, ma essendo su bande più elevate richiederanno più antenne a parità di copertura. Un problema che solo nel lungo periodo potrà essere alleviato, con la disponibilità di frequenze che derivano dal dividendo digitale (cioè dallo switch off della tv analogica). In ogni caso, gli operatori vanno incontro a una crescita dei propri costi: nuovi siti significano anche nuove reti di backhauling (per collegare le antenne al resto della rete). E sono da fare in fibra ottica, altrimenti sarà impossibile offrire banda larga vera a tanti utenti. Gli operatori, per bilanciare l’aumento dei costi, non possono rincarare i prezzi delle connessioni dati. Anzi, tenderanno a scontarle progressivamente (sebbene a piccoli passi, come già stanno facendo). La sola via d’uscita è ridurre il più possibile i costi, non solo delle infrastrutture passive ma anche della rete in generale, di qui il bisogno di fare sharing anche attivo. Un percorso simile la sta compiendo la rete fissa: verso One Network, un’idea che adesso anche le istituzioni europee cominciano a caldeggiare. È ormai noto l’accordo che hanno fatto, sulla rete fissa, Fastweb e Telecom per condividere le infrastrutture passive (i cavidotti) dove posare la fibra. Il tutto, a conferma che ormai le distinzioni tra rete mobile e rete fissa sono solo teoriche e la convergenza tra le due è realtà.

È un passaggio epocale, che richiede un cambio di mentalità, di regole e di dinamiche di business. Gli operatori (se non tutti, la maggior parte) dovranno rinunciare a un’idea che ha accompagnato il passato e il presente delle telecomunicazioni: quella della proprietà esclusiva della rete. Ha fatto per loro come da rassicurante coperta di Linus. Ma dovranno fare di necessità virtù, perché gli elevati costi delle reti di nuova generazione, fisse e mobili, richiedono il salto di prospettiva. La regolamentazione sulle nuove reti in fibra prevede infatti molte forme di accesso condiviso alla rete Telecom (non solo ai cavidotti, ma anche alla fibra passiva). Il quadro regolamentare è incompleto, però. Servono incentivi per chi condivide le reti di nuova generazione (è una delle ipotesi al vaglio in Europa). E vanno eliminati alcuni paletti, nella normativa attuale, che invece remano contro la condivisione. Nella rete fissa, non è stato alleggerito abbastanza il pacchetto di autorizzazioni e dazi che gli operatori devono presentare alla pubblica amministrazione, quando posano cavi. Sono anacronistiche, venendo da un’epoca in cui i servizi tlc avevano margini di profitto più elevati e in cui era ancora distante la necessità di creare reti banda larga di nuova generazione in fibra ottica.

Nella rete mobile, pesa una clausola del decreto Gasparri del 2002, detto salva-antenne: ha stabilito un limite di emissione elettromagnetica di 6 volt al metro (uno dei più bassi al mondo). È molto difficile per gli operatori rispettare quel tetto in caso di siti condivisi (ci sono più antenne concentrate). È uno dei motivi per cui l’accordo Vodafone-Tim va a rilento: hanno condiviso 4.000 siti, sul totale di 46.000, e miravano a 9.800 in sei anni. Ad oggi il totale dei siti costa 1,2 miliardi di euro l’anno agli operatori. Con i limiti attuali, sarà possibile ridurli del 22%. Gli operatori ora premono per portare il tetto di emissioni a 12 volt e così ridurli di un altro 20% e risparmiare tra i 70 e i 150 milioni l’anno.

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