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Il problema non è internet, il problema siamo noi

19 Febbraio 2009

Il problema non è internet, il problema siamo noi

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Dalla preistoria a oggi, per ragionare sull'impatto di internet e razionalizzare come sia complicato censurare la rete senza contemporaneamente cambiare le persone

A più riprese, negli ultimi tempi, si è riparlato di censurare internet, alla ricerca di una rapida e popolare (si fa per dire) soluzione a problemi che sono in realtà ben più di fondo. Internet, non c’è dubbio, è un bel grattacapo per chiunque debba governare. E non voglio fare del facile populismo, parlando di regimi antilibertari: l’affermazione vale anche per il più illuminato dei governanti, quello più in buona fede.

Tecnologia con l’anima

Se ci pensiamo un attimo, la reale potenza di Internet è di essere una tecnologia con un’anima. Tutte o quasi le tecnologie del XX secolo e buona parte dei secoli precedenti si sono concentrate sul fronte dell’avere: hanno reso più facile ed economico produrre beni e servizi, aumentare il nostro tenore di vita materiale. Internet invece è forse la seconda tecnologia nella storia dell’uomo che ha cambiato a livello di massa il modo di essere. Se mi permettete un’analisi superficiale e di parte (e più in là diventerò anche impopolare, ve lo dico subito), è dai tempi preistorici che non si vedeva una rivoluzione così. La prima “tecnologia”, quella del racconto orale attorno al fuoco, per la prima volta diede all’umanità la possibilità di comunicare many-to-many, di esprimersi, di fare “content generation” autogestita.

Fino a quando la popolazione umana restò confinata a poche migliaia di persone sul pianeta, la tecnologia si rivelò perfettamente adeguata. Al crescere della numerosità dell’umanità, rivelò però un suo forte limite: l’incapacità di raggiungere efficacemente percentuali rilevanti del mercato in tempi rapidi. Tutte le tecnologie che seguirono – dalla scrittura alla stampa, alla radio, alla televisione… – si sono rivelate progressivamente più efficienti allo scopo di allargare il pubblico e di raggiungerlo in tempi via via più brevi. Questo richiese però un pesante compromesso: l’innalzamento delle barriere all’entrata del mezzo.

Scrivere non era da tutti e non lo è stato per eoni. Le macchine da stampa, le stazioni radio e ancora peggio quelle televisive non erano di certo alla portata del signor Rossi qualunque, che avesse qualcosa da dire al mondo. Se un libro, un pamphlet poteva essere stampato con un ragionevole sacrificio economico, se i samizdat fotocopiati potevano raggiungere popolazioni più o meno numerose, l’emittenza tecnologica ha per anni imposto un modello chiaro, da uno a molti (senza fare battute politiche, of course). La rivoluzione di Internet, delle sue tecnologie, dei suoi modelli e modi di esprimersi è che si tratta di un mondo a basse o nulle barriere di ingresso. Oggi fare un blog richiede skill tecnologici poco superiori al saper usare la tastiera di una macchina da scrivere. I costi di una propria operazione di comunicazione tecnologica possono essere bassissimi, specialmente se qualcuno ci mette a disposizione un computer.

Senza sforzo, senza complicazioni, possiamo mettere nel mare magnum della Rete il nostro messaggio – e una vasta parte dell’umanità può facilmente leggerlo (Google permettendo). Chiunque può quindi dire facilmente qualsiasi cosa a (e di) chiunque – in tempi immediati e su scale cosmiche, di milioni e milioni di persone. Un evento di comunicazione che una volta era riservato esclusivamente a governi, chiese o grandi aziende.

Il vaso di Pandora

A questo punto c’è poco da stupirsi se escono robe strane o cose brutte: in questo strumento gli esseri umani portano quello che hanno dentro di sé. Il problema dunque non è il mezzo o lo strumento: il vero problema è l’essere umano e la funzione dei governi e delle leggi. È consenso quasi universale che alla persona non debba essere consentito di esprimere in pubblico tutto, ma proprio tutto, quello che gli passa per la testa – e di qui la presenza di leggi (in alcuni posti più blande, vedi il Primo Emendamento, in altre più rigide – come certi paesi arabi o la grande Cina). Si tratta, in fondo, di un principio che tende a proteggere la comunità dalla circolazione di idee sgradevoli o pericolose. Il problema irrisolto è dove si debba mettere il limite. E chi lo possa mettere. Dato che poi si tratta spesso di convenzioni sociali che variano nel tempo.

Una volta in Italia si adottava come parametro il “comune senso del pudore” come limite alla “libertà di manifestazione del pensiero” costituzionalmente sancita. Ma le cose cambiano. Quello che oggi è un apprezzato contributo educativo sulla sessualità giovanile, cinquant’anni fa sarebbe stato visto come istigazione a delinquere; e molti di noi – oggi libertari – fossero nati qualche decennio prima l’avrebbero stigmatizzato come eccessivo e immorale. Per i tempi, lo standard di oggi sarebbe stato sbagliato, mentre ora è giusto. Così come una volta le guerre erano tutte giuste e glorificate e oggi sono tutte sbagliate e godono di cattiva stampa.

Dov’è il limite? Assumendo che non possa e non debba essere un’autorità religiosa a stabilire il limite per tutti, chi può farlo in maniera laica? Si può stabilire una regola universale che freni gli eccessi user generated? O dovremo andare sempre e comunque caso per caso, con giudizi inevitabilmente soggettivi?

Il terribile paradosso

Il paradosso, insomma, è che non si può fare un liberi tutti e permettere che circoli per la società qualsiasi idea e qualsiasi comunicazione, che sia su Internet o su altri mezzi; a me, ad esempio, darebbe un certo fastidio trovare in libera distribuzione moduli di iscrizione ai corsi di addestramento per terroristi islamici, magari pubblicizzati con artistici banner su Repubblica. Non si può ammettere tutto, ma chi decide che cosa è ammesso e che cosa no? Chi stabilisce se Scientology è una setta pericolosa o un rispettabilissimo gruppo di persone socialmente utili? E chi trova una regola per cui si vietino i siti pro-anoressia basandosi su un principio generale che non sia un semplice “lo so, lo sento che è sbagliato”?

Credo che anche il più attivo tra noi anticensori consideri inaccettabile la propaganda dell’antisemitismo, della violenza sessuale, dell’uso di droghe. E su questo fronte Facebook ci ha deluso, non stroncando immediatamente i gruppi promafia, ma risultando rapido ed efficiente nel sopprimere le immagini di mamme che allattavano. Penso siamo quasi tutti d’accordo che calunnia e diffamazione debbano essere castigati, per evitare che lo spargere falsità diventi un comune strumento di politica e di business. Ma il confine tra diffamazione, satira e libertà di espressione non c’è supercomputer che lo sappia tracciare in modo oggettivo.

La rete cambia con le persone

Un gran problema – forse uno dei più grossi, dal punto di vista sociologico-etico-filosofico, quello che ci troviamo ad affrontare. E mi sa che lo stiamo globalmente affrontando nel modo sbagliato. Se pur può essere opportuno limitare il diritto di parola, si tratta di un’operazione contingente: lavoriamo su un sintomo o uno strumento, ma non andiamo alle cause. Se censuriamo Internet e basta, l’essere umano che sfoga in rete le sue tremende zozzerie non cambierà: forse farà meno proseliti il suo gruppo di nazisti apocalittici, ma resterà con il suo inferno dentro e lo cercherà di propagare in altri modi.

Ma, si sa, lavorare sugli esseri umani, sulla cultura, sull’educazione non è di moda, è complesso, costoso e non sembra portare voti in una società dove quello che porta consenso è proporre la castrazione chimica e promettere che quest’anno potremo tranquillamente cambiare auto e comprarci una Tv nuova. In un sistema dove promettere di lavorare politicamente per renderci esseri umani migliori è un suicidio politico, credo proprio che lavoreremo sempre sui sintomi, lasciando irrisolte le cause e irrisolti i problemi di una società in cui sempre di più tutto è lecito pur di aumentare la propria capacità di acquisire nuovi beni, con quella roba che una volta si chiamava “etica” sempre più percepita come un hobby stravagante e tutto sommato inutile.

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