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La tv alla prova dei media sociali

06 Novembre 2008

La tv alla prova dei media sociali

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Il Web 2.0 Expo di Berlino visto con gli occhi di un broadcaster tradizionale, teso tra grandi opportunità ancora misteriose e i timori rispetto a modelli commerciali ancora tutti da inventare. Tutti i motivi per cui ne potebbe valere la pena

Se un broadcaster tradizionale fosse sbarcato al Web 2.0 Expo di Berlino armato di sana curiosità e della volontà diguardare al web come un’opportunità di investimento, dopo tre giorni sarebbe tornato a casa deluso, e anche un po’ sollevato di fronte alla solidità del suo business. Di ragioni ne avrebbe avute molte. Innanzitutto nei contesti come quello della tappa europea della conferenza coprodotta da O’Reilly Media e TechWeb, nessuno azzarda quasi più toni entusiastici e promesse di mercati inesplorati da colonizzare con margini di profitto a due cifre percentuali. Forse perché è ancora troppo vicino lo scotto del 2000, forse perché è più prudente mettere le mani avanti, limitandosi ad affermare, come lo stesso Tim O’Reilly ha fatto, che la Rete è una grande opportunità, che il web 2.0 non è 2.Over, e che se i grandi social network faticano ad identificare un modello di business valido non è perché siamo di fronte a una nuova bolla pronta ad esplodere, ma che è il contesto generale a essere catastrofico.

Non è quindi il web 2.0 che non guadagna, ma è il sistema intero ad essere in procinto di collassare, e la recente crisi mondiale dei mercati finanziari, insieme all’incombente minaccia di un surriscaldamento del pianeta, sarebbero i segnali che ci dicono di tenere duro e guardare avanti. Una magra consolazione. «Esattamente, dove sono i soldi?», chiederebbe il nostro broadcaster. Già pare di sentirlo: «I miei contenuti video sono un valore pregiato, che merita di essere sfruttato. Dove sono le ragioni per le quali io debba abbandonare il sicuro territorio della televisione tradizionale per unirmi a queste sperimentazioni pioneristiche e incerte? Dove sono il mio modello di business tradizionale, fatto di contenuti da produrre o da acquistare in esclusiva, di televisori sintonizzati e di teste da contare minuto per minuto per poi venderle agli investitori pubblicitari?».

Stare seduti sotto al palco del centro dei congressi di Berlino e apprendere che il modello di business freeconomics di YouTube non è remunerativo non è molto incoraggiante. E nemmeno è di grande aiuto sentire elencare i possibili modelli di business da applicare ai servizi web, per scoprire che uno di quelli vincenti potrebbe essere mutuato da TiVo, il digital video recorder per il quale una recente ricerca ha stabilito che l’11% degli utenti è felice di utilizzarlo (e di pagare l’abbonamento) principalmente per poter eliminare la pubblicità dai programmi televisivi. Fra i padiglioni berlinesi le strabilianti esperienze di business di successo certo non abbondano, ed è quasi rassicurante farsi raccontare di casi in cui ai servizi online sono state affiancate attività di tipo tradizionale dai riflessi industriali, come la vendita di conigli wi-fi o di biglietti da visita personalizzati. Dov’è quindi l’opportunità per un broadcaster tradizionale di affacciarsi sul web 2.0?

La necessità di adattarsi alle metodologie operative e comunicative proprie della contemporaneità della Rete è data innanzitutto dalle opportunità per un operatore televisivo di aderire al contesto culturale a cui la sua attività editoriale si riferisce, e di adattarsi ad esso. I numeri della Rete, per quanto non siano ancora avvicinabili all’adozione di massa del mezzo televisivo, parlano chiaro: più di 20 milioni di utenti italiani nel 2007, banda larga adottata da 10,7 milioni di persone nel marzo 2008,una stima di più di 2.000.000 di italiani iscritti al social network Facebook. L’offerta di contenuti su Internet, dopo aver indirizzato la propria attività su schemi dettati dai mezzi tradizionali (con una catena del valore a un’unica direzione composta da produzione di contenuti – mezzo di diffusione – utenti e dagli investitori pubblicitari nella figura di finanziatori), ha trovato nel corso degli anni una direzione più consona alla propria caratteristica bidirezionale, e si è sbilanciata – talvolta in modo estremo – verso la proposta di servizi completamente vuoti, costituiti da strutture, da elementi di interazione e da contenitori nei quali l’attività dell’utente è fondamentale per dare vita alla piattaforma.

È chiaro che questo tipo di offerta è quanto di più lontano dalla televisione possa esistere. Ma è indubbio che l’utente stia utilizzando questi strumenti in maniera massiccia e sempre più estesa, e che si stia socializzando a un sistema di fruizione (e di auto generazione) dei contenuti profondamente diverso da quello proposto dal mezzo televisivo. Non confrontarsi con questi cambiamenti equivarrebbe a trincerarsi dietro una (solo supposta) solidità industriale ed economica del proprio business tradizionale mentre l’utente, al quale il business è rivolto, sta già mutando i propri comportamenti ed i propri bisogni. Se è perfettamente comprensibile che un operatore televisivo non condivida a fondo le dinamiche bidirezionali che non appartengono al suo patrimonio genetico comunicativo, è però fondamentale che tenga conto che il suo pubblico sta mostrando interesse e si sta avvicinando a metodologie di fruizione di contenuti che rischiano col tempo di far apparire distante dai bisogni il tradizionale business televisivo. Ed è importante che cominci da subito ad operare con competenza lì dove l’utente si trova, per prevenire un possibile futuro rifiuto della propria offerta quando i numeri saranno cresciuti tanto da segnare un punto di non ritorno.

Incontrare il pubblico dove questo sta spostandosi, sia in termini di luoghi virtuali chedi modalità di fruizione dei contenuti, non significa necessariamente operare grandi trasformazioni culturali né impegnativi investimenti industriali, ma chiede solamente di mettere in atto un approccio aperto, consapevole e giustamente prudente nei confronti di nuovi strumenti e di inedite metodologie comunicative. La prima delle ricette è utilizzare i media sociali come piattaforma, imitando in questo l’attività quotidiana degli utenti stessi. Ora che sembra esaurirsi la sbornia degli user generated content, si prospetta la necessità di un approccio ragionato ai sistemi distributivi di contenuti, che nei media sociali trovano territori inesplorati ed efficaci. Lo spunto deriva da una presentazione di Pat Kitano (della quale ringrazio Luca per la segnalazione), in cui il consulente per il social networking statunitense illustra come alcuni mainstream media si stiano avvicinando ai media sociali dopo aver compreso che il web 2.0 non rappresenta una minaccia per la proprietà dei loro contenuti, ma un potente mezzo per la loro diffusione e per il valore del proprio brand.

Si tratta di adeguare la propria presenza sul web a una strategia coerente che sia vicina, sia dal punto di vista tecnologico che da quello contenutistico, alle dinamiche di consumo che quotidianamente gli utenti utilizzano: aprire account di microblogging sui quali far transitare gli aggiornamenti delle redazioni giornalistiche o il susseguirsi dei palinsesti, aprire profili sui maggiori social network nei quali portare i propri contenuti secondo le dinamiche di interazione degli strumenti, valorizzare le proprie risorse migliorando il posizionamento nei motori di ricerca, modificare i propri siti per renderli tecnologicamente adatti alla condivisione, consentendo ad esempio l’embed dei video con il proprio logo in evidenza.

E poi ancora cominciare a riconoscere nei media sociali una risorsa di grande importanza per il marketing, utilizzandoli invece di evitarli per timore. Aprire infatti su ognuna delle proprie presenze in Rete (siano queste siti o strumenti di social networking) uno spazio di contribuzione e di ascolto degli utenti, eventualmente trasferendo una porzione delle risorse di customer care su questi mezzi, puòrappresentare, come già positivamente dimostrato in qualche caso, uno strumento di marketing che migliora la percezione del proprio prodotto verso gli utenti finali ed insieme fornisce importanti dati qualitativi sull’esperienza di fruizione.

Perchè quindi un broadcaster tradizionale deve affacciarsi sul web 2.0? Esserci sui social media oggi, seppur con la prudenza di chi si incammina per sentieri sconosciuti, può rappresentare per un operatore televisivo l’opportunità di sfruttare a proprio favore le potenzialità di strumenti liberamente a disposizione per aumentare la percezione di contemporaneità del proprio marchio, può garantire la possibilità di aprire un (inusuale) canale di ascolto della propria utenza ricavandone elementi da affiancare ai dati tradizionali e consegna gli strumenti per promuovere orizzontalmente i propri contenuti sfruttando meccanismi di provata efficacia e dai costi contenuti.

Ma soprattutto essere sul web 2.0, al di là di non ancora chiari modelli di business e di reali opportunità economiche, rappresenta per un broadcaster la possibilità di rimanere agganciati al proprio pubblico, per non perdersi di vista ora che si cresce e le strade sembrano separarsi, ora che si sperimentano forme di fruizione e di creazione dei media fino a qualche anno fa impensabili, ora che la convergenza fra la Rete e la televisione ha prodotto il manifestarsi di molteplici metodologie di fruizione del contenuto video che hanno di fatto reso nullo il non lontano monopolio dell’immagine da parte degli operatori televisivi.

Significa trasformare la propria attività in Rete in un’azione leggera, fluttuante, che rinunci al concetto del controllo (e del possesso) degli strumenti di diffusione e che torni a parlare all’utente là dove l’utente si trova, con il linguaggio che si aspetta dal mezzo ma con la convinzione e l’autorevolezza di un editore. Significa esserci ora per essere sicuri di ritrovarsi poi, il broadcaster e il suo pubblico, fra qualche anno. Quando saremo di nuovo in grado di dire come è fatta la televisione. O cosa effettivamente sarà diventata.

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