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Barack Obama, dalla tv al Web (e ritorno)

31 Ottobre 2008

Barack Obama, dalla tv al Web (e ritorno)

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30 minuti sui maggiori network televisivi. Dai 3 ai 6 milioni di dollari spesi per uno documentario girato dal regista di Al Gore. Barack Obama gioca su tutti i media, contro la politica dei sound bites e con il Web come esempio.

Uno spot di trenta minuti. Anzi 27′ e 10”. Altro che trenta secondi, il tempo standard classico per gli spot televisivi – anche politici. Mancano pochi giorni alle urne e il candidato democratico Barack Obama decide di pagare dai 3 ai 6 milioni di dollari per mandare in onda simultaneamente su sette network nazionali (tra questi Nbc, Cbs e Fox) uno spot-documentario intitolato Barack Obama: American Stories. Quasi un messaggio da presidente eletto e a reti unificate, in cui il senatore di colore presenta il programma per il governo della nazione facendosi interprete dei bisogni dell’America più o meno profonda.

Un fotogramma dello spot-documentario trasmesso il 29 ottobre

Un fotogramma dello spot-documentario trasmesso il 29 ottobre

La politica nell’ecosistema dei media (sempre più digitali)

Ecco i paradossi (virtuosi) dei media e della politica di oggi – della politica che gioca in un ecosistema mediale magmatico e instabile, con equilibri di potere in via di assestamento. Da una parte Barack Obama rischia di passare alla storia come il primo presidente di Internet degli Stati Uniti d’America, per aver usato in modo formidabile le potenzialità reticolari e multimediali della Rete (prima contro Hillary Clinton, sua avversaria troppo old-style nelle primarie, e ora contro John McCain, candidato repubblicano per sua stessa ammissione non del tutto digitally savvy). Dall’altra, però, non è caduto nell’errore di auto-confinarsi in un solo territorio, ovvero la dominata Internet, scelta che quattro anni fa di fatto tagliò le ali alla campagna di Howard Dean nelle primarie democratiche. Il semi-sconosciuto senatore del Vermont che tanto seguito riuscì ad ottenere in poco tempo sulla Rete, come un pesce fuori dall’acqua non sopravvisse sui media tradizionali – dove venne fatto a pezzi sia nei dibattiti che nel coverage giornalistico. Grazie anche a trucchetti ben riusciti come l’urlo belluino durante un comizio usato come prova di troppa irruenza (la campagna è ben raccontata nel libro di Joe Trippi The Revolution Will Not Be Televised: Democracy, the Internet, and the Overthrow of Everything).

Una campagna multi(media)tasking

Obama sembra aver imparato la lezione di Howard Dean. Una lezione perfetta per periodi in veloce e incontrollabile mutazione, come quelli che stiamo vivendo. Bisogna differenziare gli investimenti comunicativi. Non puntare su un solo tavolo da gioco e mai dimenticarsi di un media. La campagna di Obama è stata una campagna multi-tasking, per usare un termine ambiguo ma di moda. Multi(media)tasking. Con una strategia pienamente crossmediale: il centro di gravità fisso sul Web, e gli altri media a girare intorno come satelliti. La campagna di Obama ha tratto dal Web creatività, soldi e organizzazione. Ha tratto forza. Che è ritornata sui media tradizionali sotto forma di spot (tanti, tanti e tradizionali) e idee. Che ha ispirato gli eventi e le attività di marketing diretto. Che ha nutrito la retorica dei discorsi e le performance del candidato nell’ormai frusto e poco decisivo format dei debate.

Lo tsunami digitale della campagna di Obama si è trasformato sul territorio in una sorta di onda energetica – arrivando fino a pezzetti di territorio considerati da decenni irrecuperabili al Partito Democratico ed ora di nuovo in gioco, come racconta il caso della contea di Avery County nei Monti Appalachi del North Carolina di cui scrive sul Wall Street Journal Christopher Rhoads. Una contea in cui il Partito Repubblicano ha storicamente percentuali intorno al 75% e che rischia – come molte altre in giro per l’America – di cambiare di segno politico grazie all’attivismo dei sostenitori del senatore dell’Illinois. Un attivismo generato, organizzato e alimentato grazie al Web più o meno sociale.

Le reazioni al filmato: esagerato, dispendioso, inutile

Ma i conti, nelle elezioni, si fanno alla fine. Ed è comunque meglio non sedersi sugli allori dei punti di vantaggio che tutti i sondaggi, a meno di una settimana dal voto, danno al senatore democratico. Ed ecco l’idea del documentario di 30 minuti, peraltro e ovviamente programmato da tempo. Un infomercial (uno dei formati ibridi scaturiti dell’allargamento del campo giornalistico degli ultimi anni: un programma a pagamento che sembra palinsesto informativo) molto atipico. Il filmato è stato diretto da Davis Guggenheim (figlio del documentarista di Robert Kennedy e autore con Al Gore del lavoro che gli ha portato l’Oscar, An Inconvenient Truth), è andato in onda mercoledì sera, e ha già stimolato molte reazioni. John Nicols su The Nation giudica la scelta di Obama di fare la voce narrante come un togliersi, almeno in parte, dai riflettori per raccontare e far parlare l’America e gli americani. Opinione che Mario Del Pero così chiosa: «Non è ovviamente così – nello spot/documentario Obama non è un semplice narratore – e non potrebbe essere altrimenti, a 5 giorni delle elezioni. [Il filmato] serviva, una volta ancora, a rendere Obama presidente credibile e sintesi perfetta della nazione che si candida a guidare».

Altri, come Howard Kurtz, intervistato dal Washington Post, accusano il prodotto di essere “over produced”, senza, tra le altre cose, quel morbido understatement che ha finora dato agio agli elettori (ma anche ai media) di “riempire” più o meno creativamente di contenuti il messaggio del candidato democratico. Non sono infine mancate le accuse di aver speso troppi soldi: ma i milioni di dollari che la campagna ha speso per mandare in onda la “mamma di tutti gli spot elettorali” (come la chiama Luca Sofri) non hanno avuto finora lo stesso impatto dei 150.000 dollari spesi da Sarah Palin, vice presidente del ticket repubblicano, per il suo guardaroba. Più dello spot poté il tailleur.

30 minuti contro la politica dei “sound bites”

Lo spot-documentario è comunque un piccolo capolavoro. A prescindere dal fatto che possa o meno spostare voti dopo una campagna comunicativamente tirata e con le sacche di indecisi che all’approssimarsi del giorno del voto si prosciugano. Lo spot-documentario è un piccolo capolavoro comunicativo. Perché “occupa” i media tradizionali con un format non convenzionale. Creando per di più un vero e proprio “evento”: diventando notiziabile in quanto prodotto e per il contenitore, oltre che in qaunto messaggio e per i contenuti. Un prodotto epico e narrativo, che accoglie e personalizza stilemi comunicativi delle serie televisive, dei documentari, della cinematografia. Che sfrutta al meglio il minutaggio spropositato. La scelta di un filmato così lungo non deve stupire. È una scelta perfettamente in linea con una campagna che, proprio grazie alla testa di ponte dei video su YouTube, si è più volte mossa contro la logica televisiva dei sound bites – cui la politica americana e non solo negli ultimi decenni si è inginocchiata. Accettando la sintesi spesso impietosa di brevissimi “stralci” video o audio da montare nei pastoni dei telegiornali o negli approfondimenti giornalistici. Grazie alla disintermediazione di YouTube (cui la campagna di Obama ha dedicato ingenti risorse strategiche) e di altri social network, anche contenuti più lunghi di una battuta di pochi secondi sono sopravvissuti politicamente. Attirando interesse da coda lunga. E talvolta diventando materiale da passaparola.

Un discorso interminabile come quello ormai famoso su razza e razzismo “A more perfect union” – 38 minuti ingestibili per i media tradizionali a palinsesto rigido – ha avuto grande successo in Rete. È di gran lunga il video di Obama più visto su YouTube, più di 5 milioni di volte. Con buona pace di chi pensa che in Rete possa funzionare solo contenuto semplificato e rapidissimo. Subito dopo quel filmato, furono in molti a parlare di superamento della cultura politica “soundbite-driven”, guidata cioè dalla logica della brevissima dichiarazione ad effetto. Il co-fondatore di Salon Scott Rosemberg annotava con sorpresa come tanta gente fosse disposta a sorbirsi quasi 40 minuti di retorica vecchio stile, costruita senza pensare ai tempi televisivi. L’attentissimo Paolo Ferrandi su Paferrobyday aggiungeva: «Una volta di più l’innegabile maestria retorica di Obama è stata amplificata dalla distribuzione asincrona della rete. Senza l’aiuto di YouTube i discorsi di Obama sarebbero ridotti a “sound bites” e, visto che sono dannatamente complessi, perderebbero buona parte della loro potenza persuasiva».

Ore totali di visione dei video dei due candidati su YouTube, via Techpresident

Ore totali di visione dei video dei due candidati su YouTube, via Techpresident

Se la tv è scarnificata, il Web è bene in carne

La necessità del superamento della logica della battuta volante è confermato anche dai dati disponibili. La televisione politica è sempre più in America un media scarnificato. Scarnifica il messaggio politico. Secondo il Center for Media and Public Affair si è passati dai 42 secondi di media delle dichiarazione delle elezioni presidenziali del 1968, ai 9,8 del 1988 fino ai soli 7,2 secondi del 1996 (via Micah Sifry). È anche il Web a mettere in crisi una cultura politica che vede la tv al centro, e che ragiona in termini di titoli di giornali o notiziari. Se la tv è scarnificata, il Web è bene in carne. E la campagna di Barack Obama dimostra come esistano anche soluzioni alternative. Per esempio video lunghi che non spaventano gli elettori. Anzi: li attirano, se hanno contenuti. Nel grafico diffuso da TechPresident sul minutaggio totale dei due candidati su YouTube (numero visioni per lunghezza video), il predominio di Obama su Mccain è schiacciante: Obama conta 14 milioni e passa di ore; McCain solo 488 mila.

Barack Obama: American Stories è, insomma, una specie di viaggio di ritorno dal Web ai media tradizionali, visto che quello di andata – dai media tradizionali al Web – ha funzionato. Con alcuni cambiamenti. I video di Obama sul Web hanno via via abbandonato le costrizioni dei pochi secondi e dello stile semplificato accogliendo minutaggi ampi e retoriche antiche, trovando nuovi spazi, nuovi temi e nuovi pubblici. Mettendo tutto online. Sopravvivendo nel tempo. Girando di sito in sito. Senza il successo inaspettato dei discorsi chilometrici su YouTube, ci sarebbe stato il documentario di due giorni fa? Forse no. Lo spot da 30 minuti è un prodotto pienamente televisivo ma con dentro la forza e l’esperienza di quei discorsi a camera fissa visti su YouTube da milioni di persone. Dai network sociali a quelli televisivi, il cerchio (dei media e della campagna di Obama) si chiude.

L'autore

  • Antonio Sofi
    Antonio Sofi è autore televisivo e giornalista. Consulente politico e sociologo della comunicazione, ha un blog dal 2003 ed è esperto di social network e nuovi media.

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