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User generated marketing, il costo di assecondare il cliente

19 Settembre 2008

User generated marketing, il costo di assecondare il cliente

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Di chi è il prodotto? Di chi è la marca? E se non sono più soltanto dell'azienda, come fa questa a far quadrare i conti per darci retta? Mentre cambia il rapporto tra l'impresa e il suo mercato, arricchendosi ogni giorno di nuove variabili, quello che rischia di risentirne è soprattutto il prezzo

Di chi è il prodotto? Di chi è la marca? Fatte 15 anni fa, queste domande avrebbero suscitato incredulità o addirittura ilarità. Solo pochi visionari che iniziavano ad avere delle allucinazioni futuristico-markettare-sociologiche avevano capito che c’era in ballo un fenomeno che rischiava di cambiare alla radice il rapporto tra l’impresa e il suo mercato. Oggi queste domande pongono delle altre domande – e mettono sul tappeto non solo dei problemi (che sono gestibili), ma anche delle opportunità: e sono queste che fanno tracollare le aziende.

Prendiamo ad esempio il sito che assorbe ultimamente gran parte del tempo serale in rete della mia signora (così io ne approfitto per giocare in pace a World of Warcraft), ovvero Ikea Hacker. In estrema sintesi è un blog in cui un certo numero di geni e di folli condivide col mondo quello che è riuscito a fare “hackerando” i prodotti Ikea, prendendo un pezzo pensato per un certo uso e scopo e trasformandolo, modificandolo, rivoluzionandolo. Condividendo poi il tutto con la comunità. Come trasformare una tenda da doccia in una gonna, un porta Cd in uno scolapiatti, un tavolo in una chitarra.

Qui dentro c’è gente che si appropria di un prodotto e lo reinterpreta. Che fa del marketing autogenerato per Ikea e lo diffonde – in maniera incontrollabile per l’azienda (che però, dal canto suo, ha hackerato una metropolitana giapponese). Gente che lavora in modo parallelo su di una marca, ne spinge certi valori e non altri, non necessariamente in maniera congruente con quello che sente e vuole fare il marketing aziendale. Oggigiorno questo tema è ampiamente discusso: lo user generated marketing è oggetto di studio ma anche di sperimentazione (e da noi la stessa Fiat, con vari progetti, ci sta faticosamente ma strategicamente lavorando, cercando di coinvolgere sempre più gli user nei progetti di comunicazione).

È un tema che però se dal lato utente sembra presentare solo vantaggi e un profilo etico, lato azienda rappresenta un vero incubo. Lasciar gestire alle persone sul mercato il brand e il prodotto, per poi seguirle in modo flessibile, adottando un modello di ascolto e reazione significa abbandonare procedure centralizzate, allineamenti internazionali. Significa abbandonare molte pianificazioni, che seppur col difetto della rigidità hanno il pregio di rendere il lavoro prevedibile e di cercare di ottimizzare (o sfruttare) le risorse. Lavorare in modo dinamico, flessibile, imprevedibile, significa lavorare molto di più; avere bisogno di molte più risorse, gente, strumenti di investigazione del mercato, pensiero analitico e propositivo. Tutta roba che costa, e non poco.

Di qui logicamente il dilemma di fronte al quale ci potremmo trovare: il gioco varrà la candela? Un aumento significativo dei costi (e questo lo è) implica quasi inevitabilmente un innalzamento dei prezzi. Specialmente in tempi di insicurezza, di crisi all’orizzonte, la sensibilità al prezzo diventa un fattore pesante nelle scelte, con tutto il parlare che si fa di fatica ad arrivare alla quarta se non alla terza settimana del mese. Il fenomeno low cost lascia il suo segno in molti settori – e se penso a Ryanair non riesco a trovare molte aziende che per scelta coccolino di meno il cliente (anzi…), ma che prosperano grazie al prezzo, di fronte al quale moltissime persone si tappano il naso e accettano livelli di pampering molto bassi. E ci sarebbe poi da fare il discorso di quanto la nostra domanda di prodotti/servizi low cost abbia come effetto la necessità di tagliare i costi delle imprese e quindi i salari, di ridurre rigidità e promuovere il precariato, di spostare lavoro verso paesi con costi competitivi grazie all’assenza di protezione sociale dei lavoratori e condizioni di sfruttamento.

Molti di noi vogliono che la marca sia loro, il prodotto sia loro, che l’azienda si adatti, si conformi, ci segua, ci serva. Ma quanto di noi saranno disposti a pagare il premium price che questa scelta rischia di comportare? E ci sono modi diversi di lavorare, applicabili su aziende di dimensione mondiale e di migliaia di dipendenti, che salvino la capra ed il cavolo? Che ci rendano partecipi ma non ci massacrino sul fronte dei prezzi?

Ve l’avevo detto: una bella opportunità per il business di questo ventunesimo secolo iniziato così faticosamente, in cui l’unica certezza pare essere che domani, quando ci alzeremo dal letto, tutto sarà ancora una volta diverso rispetto al momento in cui ci siamo coricati.

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