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La transizione dei media nell’era digitale

02 Maggio 2007

La transizione dei media nell’era digitale

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Esperti, studiosi e utenti internazionali si ritrovano al MIT per esplorare pratiche e problematiche della cultura partecipativa via Internet

Fornire una prospettiva più critica e scettica sull’attuale trasformazione dei media. Ampliando però il contesto della cultura partecipativa sfruttando l’ampia diffusione della Rete e dei social media. Questo in estrema sintesi il senso della quinta edizione di Media in Transition, svoltosi lo scorso fine settimana nel campus del Massachusetts Institute of Technology. Un’intensa tre giorni caratterizzata da panel e dibattiti intorno al tema portante: creatività, proprietà e collaborazione dell’età digitale.

Dovendo pescare qualcosa nella miriade di presentazioni, si va da titoli quali “Riforma del copyright do-it-yourself” e “YouTube e la realtà” a “Giochi, new media e democrazia” e “Cultura 2.0”. Ancora più importante, molti degli oltre 400 partecipanti, cifra record per la manifestazione, provenissero da Paesi asiatici, africani ed europei (Italia inclusa), oltre che da svariate università e centri di ricerca statunitensi. Ben oltre l’iniziale target accademico, stavolta c’erano poi artisti, educatori professionisti, policy-maker e anche semplici cittadini interessati a saperne di più su queste dinamiche. Un dinamico pot-pourri favorito dall’ingresso libero e gratuito, con varie persone aggiuntesi man mano alla spicciolata, inclusi gli stessi studenti del MIT. Parimenti rinfrescante è stata una volta tanto la mancanza di presenze e rilanci sui media mainstream, tipica di certi eventi in stile Web 2.0.

D’altronde l’aspetto interdisciplinare e “low-key” dell’evento era stato chiarito fin dall’apertura, dove Henry Jenkins, il factotum di questo MiT5, aveva ribadito l’emergere dei remix e dei mash-up non solo nei giri online, ma un po’ ovunque nella cultura popolare statunitense, finanche in certi talk televisivi. Pratica tutt’altro che nuova, a conferma della crescente convergenza mediale «in cui gli appassionati divengono sempre più centrali nella produzione culturale… [e dove] la cultura partecipativa è tutt’altro che marginale o sotterranea». Messaggio ripreso in dettaglio nella prima sessione plenaria al Bartos Theatre del Media Lab, rimbalzata nell’atrio dalla Tv a circuito chiuso per far partecipare altra gente.

Affrontando l’altra faccia della medaglia del cosiddetto user-generated content, Trebor Scholz – ricercatore presso il Dipartimento di Media Study alla State University di New York ma di background mittel-europeo – ha spiegato che «con i social media è più facile che la gente venga usata, anziché il contrario».Esempio classico è il super-gettonato MySpace, da cui è praticamente impossibile uscire una volta creati tutta una serie di contatti e relazioni, o esportare liberamente quanto creato nel profilo personale. Il recente annuncio dell’avvio dello spazio News non fa che aumentare la pressione di recinti dorati e monopoli, ancor più perché questa “struttura sociale” fa parte della scuderia di Rupert Murdoch. E giusto per fare un altro nome sulla cresta dell’onda, Facebook, l’user agreement (che tipicamente nessuno legge) specifica come i contenuti ivi inseriti dagli utenti restino comunque di proprietà dell’azienda. «I soldi fatti su e tramite questi contenuti – ha aggiunto Scholz – rientrano a pieno titolo nei comportamenti poco etici e dello sfruttamento del lavoro altrui».

In una sorta di contrapposizione, è stato ribadito l’esempio positivo di Second Life, assai quotato in negli ambienti digital-culturali Usa come laboratorio per la sperimentazione di modelli partecipati e aperti. E dove «fin dall’inizio sono stati gli stessi utenti ad avere la proprietà dei contenuti che producono», ha ricordato Cory Ondrejka, top programmatore di Linden Lab. Confermando altresì l’intenzione dell’azienda di rendere open source anche i sorgenti dal lato server, come già accade per il client, ulteriore innovazione tecnologica poco consona alla norma proprietaria. Tra l’altro l’evento del MIT è stato trasmesso in diretta proprio all’interno di Secondo Life, i cui utenti hanno poi proposto delle domande subito rilanciate al panel sul palco, in una fluidità continua tra l’ambito online e offline.

Si è poi parlato della lezione da trarre dalla campagna online di Howard Dean nella corsa alle presidenziali Usa di due anni fa, non solo rispetto alle elezioni del novembre 2008 ma anche per il futuro della politica via Internet. «La Rete sta diventando al contempo simbolo e strumento del cambiamento politico», ha spiegato Thomas Streeter, dell’Università del Vermont, in un apposito panel. «Pur se occorre lavorare ancora parecchio per portare e tradurre nella vita reale i benefici della Net Politics». Lo stesso Streeter ha curato una raccolta di saggi di imminente pubblicazione su questi temi, che includerà fra gli altri un intervento di Manuel Castells e una dettagliata intervista a Howard Dean.

Altro aspetto importante quello del copyright, meglio della sua riforma in senso partecipativo e flessibile, alla luce dei molteplici remix ed esperimenti in corso. Non a caso al tema sono stati dedicate due ampie sessioni plenarie, oltre a svariate presentazioni mirate. Come, ad esempio, quella del Center for Social Media di Washington, DC, sui «tool e progetti creativi a sostegno della società civile e della diffusione di conoscenza», illustrati dalla responsabile Pat Aufderheide. Con annessa enfasi sulla riappropriazione del Fair Use, l’uso legittimo di opere sotto copyright, onde produrne commentari, satira e rifacimenti grazie alle opportunità offerte dai new media e dalla “networked society”. È il caso del Moby Dick Project ideato da Ricardo Pitts-Wiley e del “gioco serio” che Juan Devis sta mettendo a punto in collaborazione con l’Institute for Multimedia Literacy sfruttando la trama di Huckleberry Finn di Mark Twain. In questi e casi analoghi, i protagonisti sono i più giovani e le minoranze sociali, puntando così a colmare il tipico digital divide nonché a spingere l’alfabetizzazione nell’uso dei new media. Per arrivare alla realizzazione di un bacino di “cultural commons” cui tutti possano attingere, pur se nel rispetto della proprietà intellettuale di artisti contemporanei. Questi ed altri progetti sono stati illustrati nel corso della sessione plenaria di sabato sera, dove uno Jenkins in gran forma ha sapientemente mescolato l’energia creativa dei relatori con l’interazione del pubblico in sala (e su Second Life).

Last but not least, la partecipazione italiana per una volta tanto nutrita e attenta. Oltre a vari partecipanti, provenienti anche da università internazionali, il gruppo del Larica presso l’Università di Urbino ha offerto un approccio sociologico alla proprietà nell’era digitale; Adriano Solidoro della Bicocca di Milano ha presentato una ricerca sui generis, sulla riconciliazione del teatro delle marionette con il dominio digitale; Maurizio Borghi e Maria Lilla Montagnani della Bocconi hanno parlato del matrimonio, auspicabile e possibile, tra copyright e copyleft. Come ha aggiunto Giovanni Boccia Artieri, responsabile del Larica, «si è trattato di un’occasione vitale per incontrare dal vivo e contribuire alla comunità globale… speriamo possano essercene altre nel prossimo futuro, da una parte e dall’altra dell’oceano». Nel frattempo, stanno arrivando online i materiali multimediali dell’evento, mentre abbondano i rilanci nella blogosfera e le foto sparse. La conversazione continua.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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