Home
One Network e l’assetto del mercato della rete

05 Aprile 2007

One Network e l’assetto del mercato della rete

di

L'interesse di breve periodo delle aziende e delle persone è in conflitto con la visione strategica del Paese. Così, mentre di nuovo si discute di una possibile acquisizione di Telecom Italia, stiamo perdendo l'occasione di immaginare l'evoluzione più funzionale dell'infrastruttura di rete

Per mesi e mesi abbiamo seguito sui media questioni sulla proprietà di Telecom Italia: chi se la compra, chi non se la compra, quale prezzo per azione, che cosa fanno le banche. Solo finanza: si sono avvicendati i nomi di Hinduya, Telefonica, Murdoch, Sistema e adesso AT&T e América Móvil, France Telecom, Deutsche Telekom e nuovamente Telefonica. Due volte, pare, si è andati vicini a concludere: con Murdoch e ora. Dopo la prima occasione, Marco Tronchetti Provera mi disse che l’accordo non è avvenuto per questioni politiche. Di certo, quando sembrava che si fosse vicini all’accordo, e solo allora, si è iniziato a parlare di regole di mercato, di separazione della rete di accesso, di strategicità della rete nel sistema per lo sviluppo economico e per la sicurezza dello Stato. Solo quando pare si arrivi vicino a una cessione si affrontano temi industriali, quando la cessione si allontana si parla di finanza.

Tra agosto (Murdoch) e aprile (AT&T e América Móvil), per sette lunghi mesi, non si è parlato della questione industriale, se non da parte del Sindacato Lavoratori della Comunicazione della Cgil. Il resto è stato solo finanza o intercettazioni telefoniche. Ma anche Dico, Vallettopoli, il Grande Centro, la missione in Afghanistan, tre italiani sequestrati, il processo di Cogne, poi di nuovo Vallettopoli. Tutti temi importantissimi e di attualità, per carità, ma non rilevanti per lo sviluppo economico del Paese. Ora, possiamo dedicarci anche a questo? Per la verità, Franco Morganti, Alfonso Fuggetta, Vittorio Carlini, Luca De Biase sono intervenuti spesso, ma non si è mai riusciti a entrare nel mainstream della comunicazione. Se però arriva un compratore, tutti a dare giudizi sul «libero mercato» o sulla «strategicità della rete» senza aver fatto i compiti a casa e sapere che il mercato si basa sulle regole e sulla loro applicazione e senza sapere perché la rete è strategica (e se lo è). È possibile evitare di fermarci ai ritornelli del tipo «viva il mercato, la Rete non è strategica» e, finalmente, entrare nel merito?

Iniziamo da qui: la larga banda è prioritaria per il Paese. Perché? Esiste una correlazione provata tra diffusione della larga banda e aumento della competitività o della produttività o del reddito procapite o di qualunque altro indicatore economico? Se esiste una correlazione, in quale misura è riferibile alla diffusione tra i consumatori, piuttosto che tra le imprese? Io non ho una risposta certa. Dell’always on sono certo: cambia i paradigmi comunicativi e consente di accelerare le interazioni aumentando l’efficienza; della banda larga non sono sicuro. Che l’Information and Communication Technology sia fondamentale, appare invece provato. Da pochi giorni è uscita la notizia che l’Ict contribuisce in Europa per il 50% della crescita della produttività. Allora uno si dovrebbe chiedere: è possibile fare delle politiche che favoriscano lo sviluppo dell’Ict in Italia ? E se sì, in quale misura passano dalla rete? In questa materia degli indicatori esistono: telecomunicazioni, finanza e pubblica amministrazione sono i tre maggiori driver dello sviluppo dell’Ict.

Fin a questo punto abbiamo stabilito soltanto che le telecomunicazioni sono importanti. Andiamo oltre: la rete a banda larga, la rete di nuova generazione, è essenziale per lo sviluppo del Paese? Io non ne sono sicuro. Intuisco, ma è solo una sensazione, che lo sia. Se guardo i numeri, la diffusione del broadband tra i consumatori negli Stati Uniti è modesta, ma la crescita di produttività recente è stata record. Se invece osservo quello che accade in Corea o in Giappone, raccolgo indicazioni diverse. Dunque io tendo a ritenere che sia meglio avere una rete di nuova generazione piuttosto che non averla, e che convenga che la paghiamo (noi consumatori la dobbiamo pagare, avvenga attraverso una tassazione o attraverso le tariffe dell’operatore). Che la rete di nuova generazione sia una sola, che non vi sia spazio per due reti, ormai è ampiamente acquisito. Lo dicono Analisti, società di consulenza, ma anche persone che in Telecom si occupano della rete. Se avessimo fatto un referendum o un sondaggio, un secolo fa, chiedendo agli utenti se volevano il telefono, che cosa avrebbero risposto alla Sip di allora (Società Idroelettrica Piemontese, il nome viene da lì)? Avrebbero detto che non serviva per parlare da un lato all’altro dell’aia. Se oggi chiedessimo alla totalità degli utenti cosa vogliono, ci risponderebbero: tariffe di telefonia mobile più basse, non rete in fibra ottica fino a casa.

Come possiamo conciliare l’utilità a lungo termine di uno sviluppo infrastrutturale del Paese con le esigenze a breve termine delle aziende, che guardano al trimestre nel soddisfare i bisogni immediati degli utenti? Questo mi sembra sia il nocciolo della questione. Mi sorge allora un’altra domanda, legittima: è possibile costruire una rete alternativa integralmente nuova, a prescindere dal possesso della rete fissa in rame? Risposta: no. È necessario usare in varie fasi di un eventuale upgrade vari pezzi di rame esistente e soprattutto i dotti, le centrali e così via. Non lo dico io: lo dicono tutti gli ingegneri tecnici e impiantisti con cui ho parlato. Però, a mano a mano che la tecnologia evolve, la necessità di intervento umano diminuisce; la fibra ha guasti che sono di due ordini di grandezza in meno del rame. Questo indubbiamente genera una questione di occupazione.

È possibile gestire la questione occupazionale determinata dalle innovazioni tecnologiche? Risposta: secondo me è difficile, ma va fatto. Le principali variabili a mio avviso sono quattro: il costo dei servizi all’ingrosso, la qualità degli stessi, l’estensione della nuova rete e i tempi della sua realizzazione. Se anche ritenessimo poco importante fare una rete nuova, espandere i servizi sulla rete attuale e piuttosto continuassimo a usare il telefonino – ovvero quello che vogliono gli utenti – e non ritenessimo vantaggioso (in termini di rapporto costi/prestazioni) fare rete fissa e tanto meno di nuova generazione, dobbiamo porci il problema di chi dei servizi di rete fissa non ne può fare a meno.

I servizi che garantiscono l’ordine dello Stato, per esempio, possono fare a meno della rete fissa? Esercito, Guardia di Finanza, Carabinieri, Ministeri passano tutti, salvo rare eccezioni, su questa stessa rete. E no, non esistono alternative, anche perché il wireless non è sufficiente. Allora che cosa vogliamo fare? Quali sono le conseguenze delle domande che ci siamo fatti finora? La mia risposta, nell’interesse a medio-lungo periodo del Paese, si chiama One Network:

  • una rete moderna,
  • con un indirizzo politico che garantisca la remunerabilità dell’investimento (la regolamentazione è in grado di determinarlo),
  • con un piano di servizio universale di accesso alla rete,
  • di evoluzione verso Ftth (fibra fino a casa),
  • in un arco temporale lungo per accompagnare la riduzione dell’occupazione,
  • con la possibile partecipazione degli altri operatori,
  • con un board tecnico comune,
  • con una governance chiara,
  • con un management indipendente, eventualmente nominato da una fondazione che non abbia fini di lucro,
  • che venda servizi soltanto all’ingrosso, per favorire la concorrenza al dettaglio,
  • con un price cap dei servizi forniti, gestito da una autorità, per costringerla all’efficienza,
  • con un rendimento garantito per chi la finanzia, eventualmente attraverso dei bond.

Di recente ho parlato con Peter Scott, Head of Unit alla Direzione Generale Information Society and Media della Commissione Europea, che ho incontrato a Bruxelles insieme a metà del suo staff. Gli ho chiesto se lui vedesse degli ostacoli in un progetto industriale di questo genere, derivanti dalla regolamentazione europea di Infso. La sua risposta è stata che no, secondo lui questa soluzione non trova ostacoli nella regolamentazione europea di settore.

Un’alternativa che parte dal capo e non dalla coda: di questo mi piacerebbe sentir discutere. Di piano industriale e non di finanza, argomento di cui credo molti, io per primo, abbiamo le tasche piene.

L'autore

  • Stefano Quintarelli

    Stefano Quintarelli è sposato con Alessandra nonché papà di Chiara ed Irene.
    Informatico (ha iniziato ad interessarsi di informatica nel 1979), ha sempre lavorato nelle telecomunicazioni/internet (dal 1985) ed è stato in prestito temporaneo al Parlamento nella XVII legislatura.
    Si interessa degli impatti economici e sociali dell’innovazione tecnologica.

Iscriviti alla newsletter

Novità, promozioni e approfondimenti per imparare sempre qualcosa di nuovo

Gli argomenti che mi interessano:
Iscrivendomi dichiaro di aver preso visione dell’Informativa fornita ai sensi dell'art. 13 e 14 del Regolamento Europeo EU 679/2016.