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Internet è un Sarchiapone

01 Giugno 2006

Internet è un Sarchiapone

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Astrazioni fatali, ovvero analogie che partono da libri. Numero due: l'essere, Internet, il media watching, la costruzione degli accordi culturali. Ma anche il sarchiapone, i gatti, l'elettore di sinistra e l'opinione di qualche blogger. Un paio dei quali si agitano quando associo all'essere qualche caratteristica

Ci sono due persone con cui spesso litigo, parlando di cose di Rete. O meglio, io non litigo: sono loro che sono sanguigni e all’improvviso, di fronte ad una mia affermazione che credo banale, s’infervorano. Ieri, ad esempio, nel mezzo di una chiacchierata ho affermato che gli accessi non servono a misurare Internet né la performance di qualsiasi artefatto sul web. Ancora sento l’eco degli insulti.

La questione è sempre stata affascinante per me, e non sto parlando di quella degli accessi. Perchè ci arrabbiamo di fronte agli argomenti degli altri? Perchè una differenza di visione teorica sul modo di raccontare il mondo ci mette così in agitazione? Perchè, pur sapendo che iniziare un discorso con un calcio nell’inguine del nostro interlocutore non aiuta la comunicazione, spesso solleviamo la gamba e prendiamo la mira? E poi: se, come diceva Borges, la parola cane non morde, perchè siamo così disponibili ad attorcigliarci l’intestino (quello vero) per colpa del discorso di un altro?

Il problema, si vede, è complesso. Ci sono molte concause. Il carattere individuale è una variabile forte e difficile da ridurre a schema. La simpatia (nel senso dell’etimo greco sun-pathos, sentire insieme) tra i due interlocutori è spesso il principale vettore della comprensione del messaggio, quindi la sua assenza può spesso portare complicazioni di pari portata. E ci sono anche una quantità di altre ragioni che, come per le precedenti, sfuggono elegantemente alle mie capacità di comprensione. Un paio di queste, però mi affascinano.

La prima è interna al discorso e riguarda l’essere. Non tanto in termini filosofici (sebbene…) quanto in termini di linguaggio. Affermare che “un gatto è aggressivo”, definisce senza appello l’essenza di quel gatto. Ancora peggio se diciamo “il gatto è aggressivo” e cambiando solo un articolo definiamo tutta la specie. Ora, è chiaro che modificando il soggetto e mettendone uno più sensibile (per esempio: l’elettore di sinistra) e modificando anche la qualità che vogliamo dare all’essenza (riferendoci ai testicoli, ad esempio), possiamo al contempo sdoganare una parola nel giornalismo di un Paese e far attorcigliare le budella di una quantità enorme di persone. A patto che: a) si creda che chi parla possegga la verità, e b) che si ritenga possibile l’esistenza di una verità. Il che francamente non è dato in natura. Ma spesso non ce ne rendiamo conto.

Umberto Eco, nel volume dedicato a Kant e all’ornitorinco (ma anche ai gatti e all’essere) analizza in maniera lucida (benchè evidentemente filosofica) il problema. Semplificando assai, potremmo dire che nel nostro discorso l’uso del verbo essere non indica una verità, ma piuttosto attua un riferimento attraverso quello che Eco chiama “enunciato designativo”. Alla fine, se si dice “gli uomini sono intelligenti”,

non ci si riferisce ad alcun individuo o gruppi di individui, ma si sta riasserendo una regola culturale, si sta facendo un asserto semiotico e non fattuale, si sta ribadendo il modo in cui la nostra cultura ha definito un concetto.

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Il che ci riporta alla natura contrattuale che caratterizza sia l’uso del linguaggio (entrambi dobbiamo essere d’accordo sul fatto che la parola tavolo indichi un certo tipo di oggetti) sia la formazione delle nostre culture. E qui arriviamo al secondo aspetto del “problema dell’essere” che mi appassiona. Se l’essere è solo una cosa su cui siamo d’accordo, come si forma il consenso (quindi il contratto) nelle nostre culture? Ovvero quando (e se) l’essere si ammanta di verità (quindi diventa assunto potenzialmente pericoloso e in grado di farci arrotolare l’intestino)?

Il primo dato è che la verità non c’entra, e la plausibilità ancora meno. In una vecchia scenetta televisiva, Carlo Campanini fa credere a Walter Chiari di avere in una gabbia un animale stranissimo e pericoloso: il sarchiapone. Eco analizza brillantemente lo sketch e conclude che Chiari, non sapendo quali proprietà abbia un sarchiapone (salvo «quella di essere probabilmente un animale»), tratta il termine corrispondente a scatola chiusa.

Nell’interazione comunicativa quotidiana accettiamo moltissimi riferimenti a scatola chiusa. […] Di solito, salvo casi di sfiducia preventiva, diamo per buono che, se un parlante pone nel discorso qualcosa o qualcuno, esso esista da qualche parte. Collaboriamo all’atto di riferimento anche senza sapere nulla del referente, anche ignorando il significato del termine che il parlante usa.

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Dunque nella comunicazione è spesso implicita una forte componente di fiducia. Ma allarghiamo lo sguardo alla cultura ed alle logiche contrattuali che la definiscono. Nella cultura analogica, nei suoi ultimi atti, il progresso ci ha portato a una enorme capacità di diffusione dei messaggi. Il fatto che esistessero pochi centri di diffusione (per un limite funzionale dei mass media, legato ai costi industriali e di distribuzione) ha portato ad una delega della fiducia nei confronti dei pochissimi centri più accreditati tra i pochi. Lo ha detto la TV, lo ha scritto il Corriere, dava un riferimento molto attendibile all’essere, vicino alla “verità”. Una cosa è così se lo dicono loro. Questo perchè il 99% delle nostre conoscenze sul mondo, oggi, è di seconda mano. Io non ho esperienza diretta dell’Iraq o di Condoleeza Rice. Esistono perchè i media me li raccontano, ma in ultima analisi potrei persino essere io all’interno di un grande Truman Show.

Come spiegano i teorici, questa enorme potenza di fuoco nella distribuzione dei messaggi ha favorito la formazione di culture costruite su un consenso stereotipato. Il fatto che gli stessi messaggi arrivassero contemporaneamente (e identici) a milioni di persone, favoriva la formazione di quella che viene definita la cornice sociologica, ovvero quella grande quantità di concetti su cui una cultura finisce inevitabilmente per essere d’accordo e costruire le sue verità. Anche perchè mancava il contradditorio.

L’assenza del contraddittorio, certo, favoriva l’accordo su una serie di grandi temi. Le caratteristiche dell’essere di molte cose erano definite, in qualche modo dall’esterno. Anche quando si trattava di sarchiaponi come il gabbiano coperto di petrolio nell Guerra del Golfo o come l’hacker che spiava un conduttore radiofonico a computer spento. Di fronte al sarchiapone, chi aveva strumenti per metterne in discussione l’essere, si arrabbiava. Las malas tripas, come le chiamava Machado, derivavano a mio parere da un sentimento di impotenza («la Tv ha detto una cosa palesemente falsa» e io non posso fare niente), o magari da un senso di crisi del meccanismo di delega («ma tu guarda se il mondo me lo devono raccontare così sciattamente»).

Così mi spiego io, sebbene non condivida las malas tripas, la cattiveria semplicistica di certo media watching cui accennava Vittorio Zambardino su queste pagine. Una specie di ricordo ancestrale dell’impotenza di controllo su una delega, molto simile alla paura e alla reazione di sussulto se sentiamo un rumore alle spalle. Se io posso correggere un’informazione errata o potenzialmente errata, non posso certo farlo con la potenza di distribuzione di un grande quotidiano o di un telegiornale della sera. È frustrazione, in fondo. Ma dietro la frustrazione indagherei le cause. Che, appunto, risiedono in un calo della fiducia nella delega sulla fissazione dei riferimenti dell’essere. E quindi della nostra conoscenza.

Oggi, a mio parere, si stanno aprendo scenari nuovi. Man mano che (con i tempi sociali) il consumo di media si sposta su quelli digitali e man mano che la connettività conquista il territorio fisico, le abitudini di riferimento all’essere stanno cambiando. Il nuovo lettore, come lo definisce Antonio Sofi, nell’aumento dell’offerta di riferimenti dell’essere sta trovando e troverà sempre più una nuova modalità contrattuale per scegliere i riferimenti da fare propri. Io non so bene come questa continua transazione culturale disegnerà (in maniera sovranazionale e linguistica) una nuova cornice sociale. Mancheranno le facili verità consolatorie che un accordo costruito a monte rendeva così semplici da distribuire. E ragionevolmente quello che ne verrà fuori sarà l’applicazione pratica di quanto si chiedeva Geertz: «che cos’è una cultura, se non c’è consenso?» E come si modella il consenso quando lo trattano quotidianamente milioni di persone, attraverso trattative rigorosamente individuali?

Non ho risposte certe, naturalmente. Ma ho preso una scelta personale. Quando si parla di Internet e delle tecnologie digitali, dei cambiamenti che stiamo cominciando a notare, tratto l’essere, nei discorsi miei e degli altri, come una ipotesi. E cerco di ricordare sempre, ancora una volta con Borges, che le ipotesi, a differenza della Storia, hanno solo l’obbligo di essere interessanti. Infine credo (spero) che una discussione sul mondo che avviene su infrastrutture che consentono il contraddittorio ci abituerà, col tempo, a essere più tolleranti col pensiero dell’altro. E, magari, anche a capire come esprimere meglio il nostro, perchè abbia la possibilità di raccogliere il consenso che merita.

Titolo: Kant e l’Ornitorinco

Autore: Umberto Eco

Prezzo: 10 €

Giudizio: Da leggere se c’è curiosità per capire quanto del nostro mondo sia solo linguaggio. E per indagare cosa c’è dietro.

Che cosa ne pensano gli altri: Wuz.it, TecaLibri

L'autore

  • Giuseppe Granieri
    Autore, docente ed esperto di comunicazione e cultura digitale.
    Il suo bookcafe.net, fondato nel 1996, è stato uno dei primi siti letterari e blog italiani. Ha collaborato con testate come Il Sole 24 Ore, l’Espresso, La Stampa e firmato diversi saggi per l'editore Laterza.

    Foto: Enrico Sola.

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