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Zambardino: «Com’è all’antica questo blogger-columnist»

28 Maggio 2006

Zambardino: «Com’è all’antica questo blogger-columnist»

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I blog tra freschezza e ingenuità, la lenta evoluzione dell'industria dei media, le sperimentazioni con l'inchiostro elettronico, l'edicola digitale. A colloquio con Vittorio Zambardino, giornalista e fondatore di Repubblica.it, tra i primi a esplorare le frontiere del giornalismo online un decennio fa e oggi tra i primi a confrontarsi con le nuove opinioni pubbliche della Rete

Alcune settimane fa a Repubblica avete presentato iLiad, esperimento di giornale elettronico portatile. Di fatto è ancora carta costretta dentro un computer, benché il computer ora sia grande come un quaderno. Che cosa vi spinge a pensare che sia la strada giusta?

Potrebbe essere carta costretta dentro un computer. In realtà da dieci anni inseguiamo un prodotto che si promette come carta costretta nel computer, ma sul quale, è del tutto evidente, dovranno esserci ricombinazioni del prodotto. A cominciare dall’approccio visuale: un giornale ha un impatto gestaltistico, ti permette una visione di insieme, su un dispositivo formato A5 la Gestalt va a farsi benedire.

Che tipo di ricombinazioni? Avrà l’impaginazione dell’edizione cartacea e l’aggiornamento dell’online?

Non faccio pretattica, come si diceva una volta degli allenatori che non davano la formazione prima della partita. Non lo so per davvero. Questo aspetto di repackaging e quindi di ridisegno dell’interfaccia giornale (ma immagino anche delle dimensioni e consitenza dei contenuti) è cosa che si vedrà col test.

Il test è già cominciato? Come avete selezionato i tester?

Il test comincerà ai primi di luglio, se tutto va bene. I tester sono in via di definizione. Il campione di 300 persone è selezionato cercando di comprendere, grosso modo, come reagirebbe il pubblico del giornale, quindi in qualche modo il campione ricalca il lettorato di Repubblica. Del resto credo che questa sarà solo una delle prima sperimentazioni che ci aspettano sul fronte del portabile e della portabilità: penso ai portable device, penso ai cellulari di nuova generazione. Si profila una fase dove il prodotto dovrà essere continuamente ripensato.

Si arriverà all´iPod e all’iTunes dei giornali?

A qualcosa che gli somiglia molto. Questa non è una idea aziendale, è mia. Vogliamo dirla in un modo molto old fashion che ti farà rabbrividire?

Diciamola.

All’edicola virtuale.

Non rabbrividisco, al contrario penso che sarebbe ora.

L’edicola virtuale però scomporrà il prodotto, almeno in una certa misura. Immagino uno che si compri la politica di Repubblica, del Corriere e del Messaggero e lasci stare del tutto lo sport.

Sarebbe già un passo avanti se dei giornali rimanesse una traccia, diciamola alla blogger, permanente. L’industria che più alimenta la discussione, in questo momento paradossalmente è quella che lascia scadere più facilmente i suoi contenuti. Certo ci sono gli articoli online, certo c’è l’archivio a pagamento, però non è la stessa cosa.

Tu e molti invocate sempre questa permanenza dei contenuti su Rete, mentre chi li mette su carta (o pietra) li lascia perdere. Ma io sono certo che fra dieci anni (non cento) la carta sarà ancora là, mentre per leggere le occorrenze che oggi trovi dentro Google dovrai fare una fatica infame. Se la stele di Rosetta fosse stata un Cd, oggi non conosceremmo i geroglifici.

Buona provocazione. Pure io scommetterei sulla resistenza della carta, non ne vorrei fare a meno. Però forse la sua raggiungibilità potrebbe essere migliorabile. Io non credo che scompariranno i libri, ma Google Books è uno strumento – parallelo, non certo di accesso primario – che a me è utilissimo per tenere traccia di percorsi e per trovare documentazione.

Ma certo che hai ragione. Esco dal paradosso e torno al punto. I giornali oggi in Rete – intendo il pregresso, anche le annate – le hai. La differenza è che alcuni le danno gratis e altri te le fan pagare, ma il contenuto c’è e anche la sua traduzione digitale. Del resto io odio la carta quando mi rendo conto che non è ricercabile, ogni tanto vorrei Google per la mia scrivania, quella reale, di atomi. Io credo che se guardiamo ai giornali invece che come a icone del vecchio da distruggere, come ad aziende in trasformazione, ci rendiamo conto che la loro velocità relativa è altissima. Stanno correndo contro la tartaruga dell’innovazione, e io credo che qualche chance di non finire come Achille ce l’abbiano.

Io tutta questa voglia di distruggere il quotidiano mica la vedo in giro. Discutere come l’industria della carta (e per altri versi della tv) prova ad adeguare Internet alla propria vocazione, spesso fraintendendo le proprietà del mezzo, non significa che l’industria in sé dovrebbe essere superata.

Perché tu non appartieni alla hamas bloggarola italiana, ma questa tendenza c’è. Peraltro io, che ogni tanto vengo definito non-innovatore, quando contesto certi estremismi lo faccio dal punto di vista di chi ha lavorato all’innovazione e ha fatto la new economy. Non faccio battaglie di retroguardia in nome del giornalismo tradizionale, io. Semmai parlo in termini di “been there, done that”.

Magari i blog a volte ci vanno giù duro e sottovalutano la complessità dell’industria giornalistica. Però nello stesso tempo è la voce di chi segue il nostro lavoro. Prima non c’era, oggi può dire che spesso quello che scriviamo non è perfetto e che le nostre decisioni sono discutibili. Il giornalismo tradizionale ha accumulato delle arretratezze che talvolta non è facile giustificare.

Il giornalismo (non ne esiste un altro, oltre quello che c’è) è quello che è: una professione che ha accompagnato lo sviluppo della società contemporanea, dal telegrafo fino a oggi. Ha molti problemi ma non quello di essere sordo. Conosci qualcosa che in questa società sia non-sordo o per meglio dire aperto? E parlo dell’Italia, anche: sono aperte e trasparenti la politica, l’economia, la medicina? No: l’assetto che ereditiamo dal passato, anche recente, è quello di istituzioni chiuse. Si fa molta fatica a imporre il concetto di trasparenza in economia, anche dopo la Enron e la Parmalat.

Ora prendiamo la questione dei media come la si discute oggi. È impostata correttamente questa critica? De Kerckhove dice di sì, io dico di no. Non perché critica, ma perché è corriva, collusiva. Non vuole aprire il giocattolo a tutti: vuole aprirlo a se stessa. E da questo punto di vista ha vinto: Associated Press ha inziato a “distribuire” i blog con il suo feed di notizie mainstream. A me però non piace un pensiero che combatte solo per sé e non conosce la capacità della critica. I media sono la televisione, i media sono il potere che con i media si coniuga e si incarna, si fa visibile. Le grosse partite, simboliche e materiali, che corrono nei media come i flussi di Borsa corrono a Piazza Affari, il blogger medio non le vede nemmeno. È un povero fesso che parla male dei giornalisti per invidia.

Non è invece una persona che parla di quello che vede e che lo interpreta con i mezzi che ha a disposizione? Non è un punto di vista, semplicemente? Perché, se resta nei binari del buon senso, dev’essere un povero fesso? Magari non vuol fare nemmeno il giornalista. Non saranno mica i media ad aver preso il vizio di attribuire pesi eccessivi alla singola voce, soprattutto se critica?

Su quest’ultimo punto ti do ragione. Ma il prolema è proprio quello della misura. Tu ti giocheresti i tuoi redditi di un mese sulla misura di molti blogger?

Non ci giocherei i redditi di un mese magari, ma investirei il mio tempo nel mediare, nell’evitare lo scontro con chi non ha misura – perché ne verrebbe fuori soltanto uno scontro senza misura. Io però non vedo nemmeno tutto questo scontro, francamente.

Prendiamo in positivo la tua frase. Scrivere pubblicando è una grande conquista. Forse stiamo solo vivendo da vicino una fase in cui le persone non hanno ancora imparato che scrivere significa sempre avere a che fare col potere e che scrivere è sempre l’esercizio di un potere. Io credo che questo, pian piano, diventerà una dato di coscienza importante, una consapevolezza.

Sono d’accordo, per questo mi aspetto misura e collaborazione soprattutto da chi ci è abituato. Tu hai definito il media watching, almeno come praticato in Italia, volgare. Perché volgare?

Perché io ho una idea “alta” del media watching. Il Media Watching può essere una funzione di democrazia. Ma se degrada quasi in campagne di insulto personale verso i giornalisti di una sola testata – perché le altre sono brave, perché ci fanno scrivere, perché ci mettono nei loro blogroll – è tutto molto volgare. E poi ripeto: il media watching deve guardare a un ambiente e invece si guarda solo ai giornali, si guardano le pagliuzze e si perdono le travi. Per dire: la tv dov’è nel mediawatching nostrano?

Ce n’è anche per la tv, mi pare. Tu credi davvero che ci sia un accanimento verso la stampa e perfino verso una testata in particolare?

Assolutamente sì. Posso fare un esempio del perché il media watching unilaterale manca il suo bersaglio?

Certo.

Poniamo che nello scandalo delle meringhe truccate il magistrato dica a un certo punto: «i truccatori avevano trovato gli elementi per truccare le meringhe su Internet». Un giornale scrive la cosa e titola: «Meringhe, lo scandalo nasce su Internet». È una scemenza, detta così, non c’è dubbio. E ci sarà un´ondata indignata di onesti commentatori che si stracceranno le vesti su questo, e qui accadono due cose spiacevoli.

La prima: non si comprende il meccanismo interno della scrittura di comunicazione: se io scrivo un ragionamento di venti righe, qualcun altro deve sintetizzarlo in un titolo. Quel titolo sarà fatto secondo convenzioni che sono a volte produttive di linguaggi stucchevoli, ma sono convenzioni. Il nerd nostrano invece è letterale. Neanche a dirlo, se fosse in redazione dovrebbe imparare a usare le convenzioni, altrimenti i suoi titoli non entrerebbero mai nelle battute.

Il secondo punto è la parzialità, l’errore ottico: a furia di guardare un solo giornale, di non vedere i telegiornali, accade per esempio che non si veda come lo scandalo delle meringhe è trattato dal giornale che è posseduto da alcuni meringari ufficiali, il quale magari spara sui magistrati che fanno l’inchiesta. Se voglio parlare delle meringhe, devo guardare a tutte le componenti dello scandalo, devo guardare il gioco delle parti. Devo capire “le parti in commedia”: l´informazione è anche una forma della lotta politica, della partita del potere. Chi non lo capisce rischia di essere usato. Io a volte sono duro – e sbaglio – ma mi succede perché in realtà mi sento “dalla parte” del blogging e vorrei non vedere gente anche molto brava che cade a piedi uniti nei tranelli più banali, o che si piega a piccole piaggerie. O cade nella sindrome della pecora Dollly.

Che c´entra la pecora Dolly?

Se c´è un male del giornalismo italiano è il suo columnism, la sua senatorialità, la sua tendenza a discutere prima di riferire i fatti in modo direi ossessivamente approfondito. A volte si dibatte – è la mia impressione – di questioni non abbastanza spiegate ai lettori. Penso alla riforma costituzionale. C´è poi la tendenza a colludere con le forze e i soggetti di cui si dovrebbe parlare: come descriveresti la posizione di certi giornalisti sportivi con il Calcio-Gate, se non come collusione professionale? Ecco, è paradossale che proprio mentre attacca e critica il giornalismo, un certo blogging movement finisca col fare le stesse cose. Accetta inviti, va agli eventi dell´azienda che detesta… ma scusate, così non si va da nessuna parte. Bisogna uscire dal binomio contrapposizione/collusione. Il blogger lo fa? Non lo so.

Ciascun blogger sceglie in funzione della propria etica e dignità gli inviti che gli permettono di conoscere il mondo (e magari raccontarlo) in prima persona. Certo il punto di equilibrio tra opportunità e strumentalizzazione non è facile da identificare. Però fammi tornare al media watching, perché da quello che dicevi sembra quasi che per leggere e commentare un giornale servirebbe un giornalista della stessa testata. Se il titolo sintetico non si può criticare perché è un modo ormai assodato di mettere in pagina la realtà, se il modo in cui un giornale tratta una notizia non può essere fatto a pezzettini perché si devono conoscere i vincoli dei poteri che gli stanno dietro… stiamo parlando ancora di lettori comuni? Forse sta cambiando la sensibilità del lettore. E forse i blog sono solo un sintomo.

Per questo, come per tutto, uso una distinzione di Metitieri: non è necessario che sia fatto da professionisti, ma dev’essere fatto in modo professionale. Tutto si puo criticare da parte di tutti. Se però parliamo della qualità del fenomeno, io devo fare una critica dei suoi toni oltre che dei suoi contenuti. Ecco perché dico: sii professionale. Non è un crimine stare a casa con i figli e scrivere un blog. Non è neanche un cirmine dire che Zambardino scrive male di meringhe perché è un incompetente di zuccheri. Il problema è se stai esprimendo un´idea o uno spleen, una rabbia. E poi c´è un problema di merito, direi filosofico: si assume una centralità di Internet, a partire dalla quale si leggono tutti i comportamenti dei media e della società. Come se Internet fosse una promessa messianica o un “Criterio Ultimo” sulla base del quale giudicare il mondo. È un errore.

E tuttavia non puoi negare una freschezza, un influsso positivo dei blog sui giornali.

Credo che siamo al momento x dell’incontro tra blog e giornale, e uno degli aspetti più importanti sarà quello quantitativo. Forse ricorderai un´intervista mia a De Kerckhove. Lui a un certo punto dice: avete avuto 30.000 messaggi sulle elezioni, beh quella è la mappa emotiva del paese. Peraltro una mappa poco onorevole, aggiungo io. Ecco io credo che questo aspetto sia decisivo, cruciale per “rivoluzionare” il giornale. Sapere in tempo reale che cosa pensano di te i lettori e i potenziali lettori è fondamentale, è la leva che permette a un´istituzione di guardarsi dentro, di vedere i limiti elitistici della sua formazione. Perché poi in questo paese di intellettuali crociani e arretrati che cos’era un giornale a metà del secolo scorso? Un gruppo di intellettuali che vendeva la sua visione del mondo. Poi col dopoguerra, direi dal caso Montesi, tutto cambia. Arriva il giornalismo investigativo ma bacato, presso di noi, dal verme del giornalismo millitante.

Riprendo ciò che ho già detto. Questa malattia se la porta dietro ancora il nostro giornalismo insieme a una cristallizzazione di una tendenza al columnism che paradossalmente è il genere narrativo che più intriga il blogger. Qui sta il nodo della vicenda: il blogger invidia al giornalista non il duro lavoro della cronaca («piedi, pazienza e culo», ricordi?), ma la sua facoltà di emettere opinioni. Ma il column è sempre più news analysis nel giornalismo serio, vincente. Sempre meno predicazione. Il blogger sotto questo aspetto è un giornalista all’antica, vuole predicare.

Ora io vedo la capacità di Internet – non del solo blog, ma di tutte le forme della conversazione – come una leva che sottrae il giornalismo a qualsiasi vecchiezza e lo mette in perfetta sintonia col mondo. La “popolarità”, nel senso delicesco del termine è la parte mancante del lavoro di selezione e gerarchizzazione della notizia: quando i giornali lo capiranno, saranno diversi da oggi. Ma… non saranno migliori. Siamo proprio sicuri che la “popolarità” sia il criterio più corretto. Non sentite un accento autoritario nella dittatura delle masse?

Però sotto sotto a te il blog piace, ammettilo. Ci hai proprio preso gusto, o almeno questa è la sensazione nel leggere il tuo blog e la rubrica Scene digitali, fresca fresca di trasformazione in blog…

Il blog mi piace? Certo che mi piace. Non solo perché io sono un logorroico, ma perché ho una curiosità morbosa verso tutto ciò che questo fenomeno produce. Mi avvicinai a un computer per la prima volta nel 1988, al lavoro. Era un Atex, pensa, un coso enorme. Scoprii la posta elettronica. Mi feci il Pc a casa. Frequentavo Bbs, chat, forum, liste in italiano e inglese. Le cose più folli. Questo mezzo mi ha cambiato la vita, mi ha dato un altro amore, per cui ho lasciato la mia famiglia, mi ha dato una “cultura”, fatto scrivere un libro, cambiare lavoro e mi permette di fare un lavoro divertente nonostante abbia l’età in cui gli altri pensano alla pensione. Mi piace il blog? Ne ho quattro, di cui due anonimi. Io cammino sul confine invisibile che sta fra il mio modem e una redazione.

L'autore

  • Sergio Maistrello
    Sergio Maistrello, giornalista professionista, segue da oltre 20 anni l'evoluzione di Internet e le sue implicazioni sull'informazione e sulla società. È docente a contratto di Giornalismo e nuovi media all’Università di Trieste e insegna New media al Master in Comunicazione della Scienza della Sissa.

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