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Esperimenti in corso per la musica online

04 Ottobre 2004

Esperimenti in corso per la musica online

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Wired Magazine annuncia un CD-compilation sotto Creative Commons, mentre c'è chi suggerisce di tagliare i prezzi online per vendere molto di più e scoraggiare la pirateria

Torniamo stavolta a fare una panoramica di notizie fresche su quella che viene definita da più parti “la guerra della musica online”. Non che in un qual senso non sia così, ma insistere con queste metafore belliche visti i tempi non è certo una bella trovata. E, quel che più conta, ribadire in tal modo la polarizzazione del dibattito non aiuta affatto a trovare quelle soluzioni ragionevoli e di compromesso che possono risolvere un’impasse cruciale per il futuro non solo della musica o delle major del disco o del P2P, ma della libertà di cultura per l’intero pianeta, Lessig docet. Non a caso il fondatore delle Creative Commons, le licenze per chi vuole riservarsi soltanto “alcuni” diritti (prossimamente al via anche in versione italiana), ci ricorda in “Free Culture” (anche questo uscirà presto in Italia) che è possibile impostare un sistema alternativo in grado di “assicurare la remunerazione agli artisti preservando al contempo la libertà di spostare facilmente i contenuti… un sistema differente [che] raggiunge i medesimi obiettivi legittimi ottenuti dall’attuale sistema del copyright, lasciando però molto più liberi consumatori e autori”.

Proprio sulla base di simili posizioni viene ora annunciato l’ennesimo esperimento editoriale: nel numero di novembre, Wired Magazine includerà un CD musicale con pezzi di vari artisti rilasciati sotto le licenze Creative Commons – tra gli altri, Beastie Boys, David Byrne, Gilberto Gil. Si prevede una circolazione di 750.000 copie, con distribuzioni gratuite del CD in alcuni concerti. Dopo mesi di contatti e trattative, su 50-60 artisti contattati alla fine 16 hanno accettato – meglio sarebbe dire le rispettive case discografiche. Spiega infatti Chris Anderson, Editor in Chief di Wired Magazine: “È stato relativamente facile avere a bordo gli artisti. Le major hanno priorità diverse. Alcune di queste, una volta informate, hanno capito e altre invece non sono mai riuscite a vedere i vantaggi dell’iniziativa”.

Da parte sua David Byrne ha paragonato il file-sharing alle librerie pubbliche, sottolineando come all’inizio anche queste fossero un concetto del tutto nuovo e come gli editori le temessero perché “potevano distruggere il loro business”. Il pezzo incluso nella raccolta, “My Fair Lady”, gli appartiene in quanto a copyright e non è mai stato uscito per la sua casa discografica, la Nonesuch Records del Warner Music Group. Il manager David Whitehead ha chiarito comunque che “non c’è stata quasi discussione, è un’etichetta progressista”. Aggiungendo che lui e Byrne hanno dato l’OK perché ritengono “pesante” e “reattiva” la risposta dell’industria musicale alla pirateria.

Importante citare come anche la Recording Industry Association of America (RIAA) sembri riconoscere la validità del compromesso delle Creative Commons, almeno per situazioni e ambiti limitati. A commento del progetto di Wired Magazine, Hilary Rosen, ex-CEO della RIAA e già animatrice delle campagne repressive lanciate lo scorso anno, ha spiegato di considerare le nuove licenze utili come “applicazioni di nicchia”. E pur non avendo cambiato opinione sul pugno di ferro contro i ‘pirati’, ha aggiunto: “Ho insistito con Larry [Lessig] che non credo che il problema primario per il music business sia che migliaia di artisti stiano cercando un metodo legale e semplificato per far girare la propria musica”. Ovvero, concordano un po’ tutti, le licenze “aperte” non vanno sicuramente bene per tutti e sempre ma, appunto, l’importante è sperimentare soluzioni a metà strada e/o alternative, onde aiutare a superare l’attuale di rigidezza delle posizioni in gioco.

In tal senso anche la posizione di Steven Levy, autore da tempo addentro alle dinamiche socio-tecnologiche. Nella sua rubrica sul settimanale Newsweek spiega di considerare quelle campagne repressive come il ricorso all’iter legale per fermare un uragano: “La tecnologia genera una propria forma di natura, una serie di condizioni che danno vita a una realtà artificiale ma comunque impossibile da fermare. Per lungo tempo, le etichette hanno considerato la musica digitale come qualcosa che poteva danneggiarle con la forza di un uragano, ma non hanno fatto alcuno sforzo per adeguarsi a questa nuova realtà, per non parlare del fatto di trarne vantaggio”.

Viene citato in particolare il recente successo di Real Networks, che ha deciso di vendere (legalmente) canzoni online a 49 cent l’una, anziché ai 99 cent e oltre dei numerosi rivali. Ebbene, l’abbassamento di prezzo ha fatto rapidamente triplicare le vendite. A riprova del fatto, insiste Levy, che “se etichette ed artisti fossero d’accordo nell’intascare royalty ridotte, tutti diventerebbero ricchi in meno tempo, inclusi loro”. Meglio vendere sei milioni di copie a metà prezzo che tre milioni a tariffa intera, no? Anche perché, ultima importante annotazione, abbassare il prezzo potrebbe avere un effetto collaterale che interessa da vicino proprio le major del disco: scoraggiare la pirateria, visto che l’utente potrebbe decidere che per pochi cent non vale la pena di rischiare multe salate o anche peggio, se ‘beccati’. Sperimentiamo, insomma, che prima o poi la soluzione arrivi, evitando, se possibile, ulteriori battaglie e denuncie.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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