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Diario di bordo sul Computer elementare

27 Novembre 2003

Diario di bordo sul Computer elementare

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Nel leggere la cronaca serrata e molto personale tratta dal diario di bordo sul "Computer elementare" redatto dagli autori, mi sono tornate alla mente talune cose legate alla mia esperienza diretta. La postfazione di Davide Biolghini a "Il computer elementare"

Ho mosso i primi passi nelle applicazioni di “Informatica e Didattica” nei primi anni Ottanta, all’interno dell’Istituto di Cibernetica della Facoltà di Fisica dell’Università degli Studi di Milano, avendo deciso di declinare i modelli sistemici, appresi in rapporto con altri contesti, rispetto ai processi di insegnamento/apprendimento supportati dalle nuove tecnologie.

In una scuola estiva a Lecce nel 1982 entrai in rapporto con i primi gruppi A.E.D. (Applicazioni degli Elaboratori nella Didattica)costituiti in alcune città italiane: essi si dividevano allora su quali “strategie didattiche”, direttive o aperte, più potevano adattarsi all’uso dell’elaboratore nella scuola e nell’Università, anche se poi le applicazioni CAI (Computer Aided Instruction) più diffuse risultavano essere di tipo tutoriale e quindi direttivo.

Qualche anno dopo i docenti e i presidi, finalmente più numerosi, che formavo all’interno di uno dei poli del “Piano nazionale per l’introduzione dell’informatica nella scuola superiore”, discutevano se fosse corretto o meno considerare l’informatica una parte del programma di matematica e fisica (da rinnovare…), costretti poi però all’uso dell’aula di informatica della propria scuola solo per insegnare linguaggi di programmazione più o meno evoluti.

I dibattiti citati trovavano qualche sintonia e corrispondenza nel confronto, avviatosi, fin dalle prime applicazioni civili dei “cervelli elettronici”, anche tra ristretti gruppi interni alle diverse scuole di pensiero psico-pedagogico.

La prima scuola di psicopedagogia che si misurò con l’uso dei computer nel campo della didattica è stata quella comportamentista, a partire dalle esperienze di un suo fondatore, Skinner, che proponeva percorsi tutoriali di autoistruzione basati sul modello “stimolo-risposta” (lo stesso, basato sul premio dei comportamenti/apprendimenti “corretti”, usato dal neurofisiologo russo Pavlov nei suoi esperimenti con gli animali).

Più tardi sono venute le proposte cognitiviste, la più nota delle quali è la trasposizione effettuata da Seymour Papert della teoria di Piaget sullo sviluppo cognitivo del fanciullo per fasi evolutive: tramite un linguaggio di programmazione di facile uso, Logo, anche i bambini possono costruire micromondi artificiali di tipo grafico, in cui, tramite comandi ricorsivi e progressivamente composti a una tartaruga virtuale, si costruiscono figure geometriche sempre più complesse; l’obiettivo era di favorire per tappe e in un ambiente cognitivo opportuno, lo sviluppo di competenze logicomatematiche.

Nella seconda metà degli anni Ottanta questo approccio ebbe un periodo di relativa diffusione anche nella scuola dell’obbligo italiana: la prospettiva di aiutare i bambini a “diventare epistemologi”, capovolgendo l’impostazione skinneriana secondo cui era “il computer a programmare i bambini” (sono citazioni di Papert), affascinò soprattutto i docenti già impegnati in metodi didattici attivi, tra cui un gruppo del MCE (Movimento di Cooperazione Educativa).

Tramite un accordo con un accorto distributore fu possibile dotare un gran numero di scuole elementari e medie di laboratori di Commodore 64, in rapporto diretto con progetti di sperimentazione più o meno istituzionali, cui anch’io collaborai in più situazioni.

Al contrario di quanto era avvenuto fino a quel momento nella scuola superiore, queste iniziative si collegarono a una cultura dell’insegnare già basata sull’imparare facendo; nessuno degli ambiti disciplinari della scuola dell’obbligo fu “risparmiato” dalla verifica delle potenziali innovazioni legate all’uso del computer: dalla costruzione di fiabe alla redazione di giornalini di classe, dalle ricerche di storia e geografia ai giochi logico matematici.

Ecco, nel seguire il percorso/racconto degli autori, punteggiato da progressive scoperte, dalle prime esperienze “singolari” al coinvolgimento di un’intera classe, dallo stimolo di doti inaspettate negli alunni più “sonnacchiosi” alla dilatazione del tempo scuola, sia per i ragazzi sia per gli insegnanti, ritrovo gran parte delle esperienze e degli entusiasmi di quegli anni.

Solo più di recente, sulla base delle pratiche dell’apprendimento collaborativo che Internet ha reso possibile anche per le classi virtuali, sono arrivati, almeno in Italia, le teorie e i modelli costruttivisti, che propongono la conoscenza come processo sociale, centrato sul lavoro di gruppo e “situato” in contesti che si possono costruire interattivamente.

Il Mce è nato in Italia nel 1951 sulla scia del pensiero pedagogico e sociale di Célestin ed Elise Freinet (dal 1951 al 1957 ha avuto il nome di C.T.S. – Cooperativa della Tipografia a Scuola. Freinet è il fondatore della “pedagogia popolare”, secondo cui compito del docente, attraverso la sua capacità di organizzarsi pedagogicamente e di agire cooperativamente, è di basare l’intervento didattico sui principi della operatività, del “metodo naturale”, della solidarietà sociale e della liberazione culturale nel pieno rispetto della persona bambino.

In quegli anni il Commodore 64 fu non solo lo home computer più venduto in Italia, ma anche tramite della prima diffusione di massa di personal computer nelle famiglie italiane.

Questo cosa può voler dire?

In primo luogo che informatica e telematica sono una sorta di cartina di tornasole rispetto al modo di pensare e vivere la scuola che caratterizzano i singoli docenti: da una parte chi concepisce l’insegnamento come funzione cattedratica e direttiva e l’apprendimento come procedura di riempimento autoritario di contenitori vuoti di autonomia e creatività; dall’altro chi invece vede insegnamento e apprendimento come processi tra “pari”, correlati alla pratica e determinati dal contesto in cui avvengono.

Da questo punto di vista le cose quindi non cambiano: gli stessi autori fanno riferimento ai modelli “attivi” di Don Milani e Mario Lodi, che già dagli anni Cinquanta animarono il confronto tra i due modi di pensare la scuola di cui si è accennato più sopra. Quindi le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione possono rendere visibili ed esplicite visioni e filosofie sul come fare scuola già esistenti e comunque più “determinanti” sul terreno dei processi di insegnamento/apprendimento; ma nello stesso tempo costituiscono anche un’occasione importante per favorire riflessioni pratiche sulle diverse teorie dell’apprendimento, tese alla loro innovazione e più in generale alla trasformazione dei sistemi istruzionali e formativi.

Rispetto a queste posizioni (e opposizioni…), la divisione tra “tecnocentrici” e “tecnocontrari” che spesso ha animato il dibattito sull’introduzione dell’informatica e della telematica nella scuola rischia di essere fuorviante, riproponendo lo scontro precostituito tra “apocalittici” e “integrati” che più in generale si ritrova nella società rispetto a ogni cambiamento proposto dalla scienza e della tecnica.

Forse è più utile cercare di problematizzare e non assolutizzare le questioni relative a tale dibattito, assumendo cioè un atteggiamento di “realismo critico” circa il ruolo di reti e nuovi media nella

scuola; infatti essi:

  • non sono “il medium che diventa il messaggio” nel villaggio ormai globale
  • non implicano l’acquisizione di nuove capacità assolute a discapito di altre
  • non sono sostitutivi né delle persone e delle relazioni tra di esse, né delle articolazioni disciplinari del sapere.

Insomma, per concludere, non si può privilegiare lo strumento, seppur “nuovo”, rispetto all’oggetto e ai metodi dei processi di apprendimento: saper usare il computer non può sostituire, ma, quando possibile e utile, facilitare le capacità di scrivere, parlare e pensare in modo critico e creativo.

E questo, i nostri autori, mostrano di averlo concretamente verificato e compreso…

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