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Il progresso dei computer? Un’illusione

25 Novembre 2003

Il progresso dei computer? Un’illusione

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Vent'anni di personal computer, e le cose vanno sempre peggio. I computer di oggi sono enormemente più potenti, hanno più memoria, più velocità, più funzioni. Eppure sembra che queste capacità vengano usate quasi solo per fare quello che non ci serve. La presentazione di Walter Vannini a "Interfacce a misura d'uomo"

Da anni nei miei seminari includo sempre qualche esempio di come, in termini di produttività reale, il tanto decantato progresso dei computer sia in realtà largamente illusorio. Possiamo fare modellazione tridimensionale in tempo reale mentre il computer suona il nostro CD preferito in stereo surround e le quotazioni dei nostri titoli scorrono sullo schermo. Questo naturalmente è un grande passo avanti se il nostro lavoro consiste nel guardare gli altri che lavorano o nel testare videogiochi in un ufficio di sordi. Nella realtà, saremmo già contenti di poter lavorare senza che il computer ci si mettesse in mezzo. Non per calcolare la traiettoria di un satellite artificiale, ma per scrivere una lettera commerciale e stamparla in meno di mezz’ora, e senza doversi chiedere perché il Dottor Cavagni sia diventato Dottor Tafani, o perché le maiuscole (di date, indirizzi, elenchi,…) compaiano sempre a caso ma rigorosamente nei posti sbagliati, o ancora perché le voci sui menu cambino ogni trenta secondi; insomma, senza essere intralciati da una qualsiasi di un migliaio di funzioni “utili” che in poche ore, ogni mattina, potremmo adattare al nostro “personale e unico stile di lavoro” se soltanto, miserabili arretrati che non siamo altro, non dovessimo lavorare.

Chiunque usi un computer sa di cosa parlo: l’informatica è diventata la scienza che fornisce soluzioni ai problemi inesistenti. Naturalmente, non è più pensabile fare a meno del computer in un lavoro d’ufficio e quindi, nonostante tutto, Lo Spettacolo Deve Continuare. I nostri documenti (o fogli di calcolo o siti Web o, purtroppo, programmi) ricordano le acconciature fatte gratis dagli allievi delle scuole di taglio e piega, ma cosa sarà mai di fronte al fatto che li abbiamo prodotti con un sistema operativo a 32 bit? Un po’ come giudicare gli scrittori dalla penna che usano…

Dobbiamo porci due domande fondamentali; primo: come abbiamo fatto a cacciarci in questa situazione? Secondo: come facciamo a uscirne?

Per quanto riguarda la prima domanda, un argomento molto in voga sostiene che sia tutta colpa di Bill Gates, il quale, facendosi beffe della libera concorrenza, ci ha reso schiavi della tecnologia per soddisfare la propria insaziabile cupidigia; Bill Gates è l’Anticristo. Peccato che, pur partendo da dati reali, l’argomento sia una grossolana semplificazione.

Gates è un personaggio scomodo e antipatico che indirizza le critiche sull’obiettivo sbagliato; un comodo pretesto per guardare la punta del dito quando qualcuno indica la luna. Il punto non è se Microsoft abbia agito bene o male, ma dove erano e cosa facevano tutti gli altri. Risposta: nel proprio ufficio, o magari in quello di Bill Gates, a brindare ad accordi che in tempi meno ipocriti si sarebbero chiamati di cartello.

Gli stessi top manager che oggi piangono lacrime di coccodrillo, al momento buono hanno fatto la coda, spesso felicemente a braccetto con lo stesso Gates, per costruirsi il loro bravo monopolio personale alle spalle degli utenti e di quella concorrenza che amano tanto quando viene applicata agli altri.

Purtroppo per noi questi campioni della concorrenza a posteriori, così pronti a giocare agli Highlander del Libero Mercato, possono solo lamentarsi di non essere loro, il “soltanto uno” rimasto.

Bill Gates non è il problema; Gates è solo il giocatore più bravo, è il gioco che fa schifo. Ed è un gioco che continua, a colpi di formati proprietarî reciprocamente incompatibili, di brevetti sul software e di corsa alle funzionalità inutili.

Nel mondo dei sogni, nell’economia che si insegna e si proclama, i produttori di un dato bene definiscono standard condivisi e competono direttamente sulla qualità del prodotto finale, per maggior beneficio dell’utente e maggior gloria della libera impresa. Alleluja. Nei fatti, la creazione di una situazione di monopolio è lo strumento più sicuro per la crescita di un’azienda, e in mancanza di regolamentazione viene sempre preferita a soluzioni più costose emeno certe, come per esempio la qualità del prodotto finale. Non è mai accaduto che un’impresa abbia rinunciato a una posizione di monopolio spontaneamente, senza cioè la pressione di circostanze particolari quali crisi di mercato, ribellione dei consumatori o interventi statali.

I consumatori, già: perché non si ribellano?

In moltissime attività, usare un computer vuol dire impiegare più tempo e spesso anche ottenere un risultato peggiore. Eppure tutti noi sembriamo incapaci di fare altrimenti, di iniziare anche solo a concepire un modo diverso di lavorare. Perché? Perché quando pensiamo al computer non lo facciamo da esseri razionali, ma nei termini e con i criteri che ci sono stati instillati da vent’anni di marketing selvaggio in un mercato privo di qualsiasi concetto oggettivo di qualità.

Tanto per cominciare, siamo stati persuasi a barare quando facciamo i conti. Quando usiamo il computer, nella colonna dei costi non mettiamo mai il tempo di apprendimento, il tempo perso, il lavoro buttato, i problemi dovuti alle incompatibilità assurde fra un software e qualsiasi altro (o più in generale fra il software e il resto dell’universo, a volte persino tra il software e se stesso). Facendo i conti in questo modo, naturalmente, qualsiasi risultato viene ottenuto in poco tempo e con una fatica minima, proprio come ci avevano promesso.

Questi costi invisibili non sono affatto un’invenzione; nella teoria economica hanno anche un nome ben preciso: esternalità.

Sono costi che, invece di ricadere sul produttore di un bene, ricadono su chi lo usa o, ancora meglio, sulla società in generale. Né la collettività né i singoli presentano un bilancio annuale, ed ecco che questi costi spariscono come per magia, alzando ulteriormente i profitti delle società produttrici di software.

Uno studio del NIST (National Institute for Standards and Technology, un ente del governo USA a metà fra un istituto di normazione e un centro di ricerca) ha pubblicato uno studio sul costo che i difetti del software hanno per l’economia statunitense.

La cifra è di sessanta miliardi di dollari l’anno. Sessanta miliardi di dollari, almeno ventidue dei quali “imputabili direttamente alla scarsità o alla totale mancanza di test prima della vendita”.

Lo stesso studio fissa a 180 miliardi di dollari il valore complessivo annuale del mercato americano del software.

E chi paga questi costi? “A livello nazionale, oltre la metà dei costi ricade sugli utenti, mentre il resto grava sugli sviluppatori e venditori di software”, ovvero di nuovo sugli utenti sotto forma di aggravi dei costi. Sessanta miliardi di dollari sono quasi quattro volte la capitalizzazione di Microsoft e degli altri principali produttori di software messi insieme.

Lo studio si riferisce agli USA, ma nel resto del mondo la situazione è identica. In pratica, possiamo dire che ogni anno l’industria del software costa alla collettività più del proprio valore di mercato. Possiamo quindi concludere che l’industria del software, che ci viene decantata come il paradigma dell’iniziativa privata, sopravvive solo grazie a sovvenzioni offerte dal resto del sistema economico. Aspetto da tempo di vedere qualcuno farsi avanti e proporre di tagliarne i rami secchi e di riportarla sotto il controllo del mercato.

Il grande inganno che riesce incredibilmente a perpetuare questo stato di cose, l’incantesimo in cui Gates non ha rivali, è di avere trasformato il software da prodotto a percezione. In realtà non è niente di diverso da ciò che succede in moltissimi altri settori (dal dopobarba per l’uomo che non deve chiedere mai all’automobile come marchio di mascolinità), ma con una piccola differenza: il software non deve soddisfare nessun criterio di qualità oggettivo, nemmeno quello di assolvere realmente una qualche funzione. Raskin ha riassunto splendidamente la situazione: «Pensate se ogni giovedì, e solo il giovedì, le nostre scarpe dovessero esplodere a meno di fare un doppio nodo quando le allacciamo. È esattamente quello che ci succede ogni giorno con i computer, e nessuno sente il bisogno di lamentarsi».

Il software che acquistiamo, quindi, non è uno strumento per risolvere un qualche problema, ma uno status symbol che, come ogni status symbol, è autoreferenziale, si giustifica da sé. La metafora definitiva per comprendere il software è quella religiosa: il software è un culto settario, con la sua liturgia e i suoi ministri, di

cui siamo tutti adepti. Ed ecco svelato il nocciolo della questione, il motivo che rende possibile questa allucinazione consensuale grazie alla quale continuiamo ad accettare nel software difetti che troveremmo inconcepibili in un frullatore.

Con questa chiave di lettura, tutta l’informatica diventa comprensibile e lineare. Prendiamo la figura dell’esperto di informatica.

Vent’anni fa era un laureato con una competenza, oggi è un tardoadolescente con “la passione per il computer”. Perché? Perché il laureato si rifà a criteri oggettivi e sarebbe quindi un pessimo ministro del culto, mentre l’adolescente ha per definizione un’enorme pazienza per i dettagli, tempo da perdere a iosa e nessuna memoria storica, ed è quindi il personaggio ideale per assorbire e diffondere il dogma dell’Upgrade Continuo e la liturgia del Dettaglio Inutile su cui l’industria del software si basa.

L’adolescente “bittarolo” con “la passione del computer” considererà fuori moda il software dell’anno scorso così come quello “modaiolo” troverà giurassici il giubbotto o le scarpe da ginnastica della passata stagione; il bittarolo assorbirà senza batter ciglio manuali d’uso che in sole mille pagine spiegano come impaginare un documento continuando a non capire nulla di tipografia e di layout, così come il modaiolo saprà gestire una squadra vincente al Fantacalcio continuando ad avere quattro in matematica.

Ecco spiegato anche perché libri con titoli come “impara XYZ in 24 ore” riempiono gli scaffali di informatica “professionale” e non quelli di, che so, ingegneria strutturale o chirurgia. Noi ci aspettiamo che ponti e case stiano in piedi, ma non ci aspettiamo che il software funzioni davvero; il solo requisito cui il software deve rispondere è il dogma dell’Upgrade Continuo; l’esperto di informatica è solo il ministro del culto, che, come tale, deve padroneggiare una liturgia complicatissima. Una liturgia mostruosamente complicata è necessaria, in primo luogo, per togliere ogni dubbio che i misteri del culto siano riservati ai soli iniziati e ribadire che le persone normali “non capiscono il computer”, autoassolvendo a priori il culto da qualsiasi accusa; in secondo luogo, la liturgia ha uno scopo sostanzialmente dilatorio, perché la Venuta della Nuova Versione risolverà i problemi e ci libererà dal Male.

Dopodiché, sarà solo questione di tempo prima che la corruzione che il mondo terreno riserva a tutte le cose umane richieda una Nuova Nuova Versione, e così via nei secoli dei secoli.

Qualcuno ha detto conflitto di interessi?

Così, oggi, l’informatica è quel mestiere che non richiede titolo di studio e il software è approssimativo, raffazzonato e velleitaristico come l’utente-tipo, affinché questi, di riflesso, possa sentirsi competente e all’avanguardia come coloro che l’hanno prodotto.

Si vorrebbe che le cosiddette nuove tecnologie fossero fucina di nuove opportunità professionali. Ma nel modello religioso il fedele deve avere fede, non competenza. La conoscenza è pericolosa perché incrina il modello autoreferenziale del culto, obbligandolo a confrontarsi con una realtà oggettiva che non è in grado di perpetuarlo. Perciò, ecco che quello che un tempo era istruzione (acquisizione di conoscenze) è diventato addestramento (acquisizione di comportamenti). Non si impara cosa siano la comunicazione, la progettazione, la programmazione: si impara ad usare Windows XP, Office XP, Flash 3, Visual Basic 6.0. Il software è un dettaglio, la versione è tutto. La nuova versione richiederà lo stesso sforzo di apprendimento della vecchia proprio per consentire al culto di perpetuarsi.

Da questo punto di vista, le cosiddette nuove professionalità, i decantati “lavoratori della conoscenza” sono solo la reincarnazione della forza lavoro indifferenziata delle catene di montaggio del XX secolo: nessuna reale competenza, nessuna reale voce in capitolo sul prodotto finito. Anche ECDL (European Computer Driving Licence, la “patente europea del computer”), che nelle intenzioni sarebbe lodevole, è solo la certificazione di un addestramento, come per i cani da riporto. Guardate voi stessi i testi d’esame, e ditemi se trovate qualcosa che non vada reimparato quando verrà la Prossima Versione.

Ed eccoci alla seconda e ultima domanda chiave: come ne usciamo?

Alla Churchill, serviranno sangue, sudore e lacrime. Bisogna uscire dal modello del culto e riaffermare l’esistenza di una realtà oggettiva con cui le promesse del software devono confrontarsi.

Bisogna aprire gli occhi e riconoscere che quando un software non funziona, va cambiato. E non con la Nuova Versione, ma con qualcosa di diverso, così come cambieremmo marca di automobile dopo la seconda volta che la ruota anteriore sinistra si stacca in corsa.

Bisogna smettere di imparare “a usare il computer” e riprendere a studiare informatica (che vuol dire matematica, algebra, programmazione, design di interfacce, teoria dei sistemi,…). Bisogna avere il coraggio di dire che la passione è una bella cosa, certo, ma che ciò che conta è la competenza.

E infine, bisogna guardare ciò che abbiamo e chiederci come cambiarlo in qualcosa di meglio, sapendo che “meglio” può soltanto significare “diverso”.

Un’altra informatica è possibile. L’Open Source, tanto per fare un esempio, è lì a dimostrarlo, e si diffonde (Linux in testa) perché funziona, non perché promette di funzionare meglio l’anno prossimo.

Raskin ci dimostra, in modo verificabile, perché l’attuale paradigma ha esaurito il suo ciclo vitale, e ci indica il modo in cui chi ha a cuore il proprio lavoro può smettere di essere un bittarolo e iniziare ad essere una persona competente.

Invece di proporci un nuovo mistero iniziatico, Raskin ci dice che possiamo (davvero!) misurare la bontà di un software dalla sua capacità di risolvere problemi reali, oggi. Ci sarà un’informatica post-monopolistica, e le idee in questo libro vi avranno una grande parte.

Leggetelo: abbiamo visto cadere il muro di Berlino, vedremo cadere la Chiesa di Bill.

Il libro “Interfacce a misura d’uomo” da cui è tratto questo articolo è disponiblie nelle migliori librerie e può essere acquistato online

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