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L’informazione truccata dell’era (pre)bellica

18 Marzo 2003

L’informazione truccata dell’era (pre)bellica

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Panoramica di autodifesa digitale contro propaganda e silenzi, per l'Italia e (soprattutto) per gli USA

L’informazione è un bene sempre più prezioso. Soprattutto in questi giorni (ore?) che ci separano dal dichiarato attacco contro l’Iraq. Inevitabilmente, giorni (ore?) in cui i mainstream media fanno a gara nel servirci, è il caso di dirlo, propaganda anziché informazione, silenzi e manipolazioni piuttosto che fatti e verità su cui riflettere. Scenario con cui bisogna purtroppo confrontarsi ancora un volta, ma che impone prima di tutto la decisa riaffermazione del diritto-dovere ad un’informazione pluralista e senza filtri. Motivo per cui è indispensabile sintonizzarsi su alcune situazioni e testate, con annessi rilanci sul web, attualmente operanti in tal senso.

Partendo dall’Italia, va segnalata l’iniziativa appena lanciata da Peacelink: l’avvio di una sorta di “commissione di vigilanza popolare” sull’operato dei mass-media in questo periodo (pre)bellico. Si tratta in pratica di un osservatorio aperto sulle menzogne di guerra — sotto l’efficace titolo di Mediawatch — che punterà a documentare “i casi in cui l’informazione italiana si trasforma in propaganda”. Il tutto grazie ad un gruppo di siti e riviste di informazione indipendente: Altreconomia, Azione Nonviolenta, Buone Nuove, Guerre & Pace, Information Guerrilla, Informazione senza frontiere, PeaceLink, Terre di Mezzo, Unimondo, Vita, Volontari per lo sviluppo. L’iniziativa muove da un assunto tanto semplice quanto preciso: “Questa volta, però, l’opinione pubblica non è impreparata. Dieci anni di propaganda e informazione manipolata dal Kossovo all’Afghanistan, uniti a dieci anni di esperienza nell’attivismo digitale ci hanno insegnato a difenderci dalle bugie con cui gli strateghi dell”information warfare’ e i ‘giornalisti con l’elmetto’ inquinano il sistema dell’informazione.”

Ecco perciò l’invito a segnalare notizie faziose, inesatte o parziali, esteso all’intera società civile, a tutti e ciascuno in generale: “…ai cittadini che davanti al teleschermo o leggendo il giornale lottano contro la rabbia e il senso di impotenza che nascono da affermazioni palesemente false o faziose…ai giornalisti e agi operatori dei media che vorrebbero esprimere il loro disagio per tutte le manipolazioni, gli imbrogli, le scorrettezze e le violazioni deontologiche a cui assistono senza poter reagire…a tutte le realtà di informazione indipendente, ai mediattivisti, alle associazioni e alle organizzazioni di volontariato dell’informazione….a tutte le persone di buona volontà che vogliono ribellarsi contro chi gioca a rimpiattino con le coscienze… anche alle persone che pur non essendo contrarie alla guerra, sono contrarie alla menzogna.”

Tutte le segnalazioni vanno effettuate sul sito di peacelink nella sezione mediawatch

Ancor più preoccupante, se possibile, lo scenario offerto in questo periodo dai grandi media statunitensi — ai quali non casualmente si deve l’invenzione di quella propaganda che oggi vorrebbero sottilmente imporre ovunque. Ciò grazie particolarmente a una modalità ormai tipica: l’obbedienza alle raccomandazioni e alle veline emanate da Washington, inclusa la caterva di esperti di strategia militare e inviati sul campo ligi al dovere. Senza sottovalutare un altro ingrediente-base: far tesoro della presunta saggezza popolare secondo cui i cittadini non vogliano saper nulla degli ulteriori ‘guai del mondo’ da aggiungere al business quotidiano già fin troppo problematico e caotico. Pratiche seguite alla lettera dai grandi network radio-TV, ormai impossibili da seguire, che non possono non produrre disinformazione diffusa, quando non palese disinteresse, nelle case e nelle menti della cosiddetta ‘gente qualunque’. (Le varie forme di aperta protesta, dai cortei alle veglie di piazza, dalle lettere ai quotidiani alle campagne online, interessano pur sempre una netta minoranza della popolazione nazionale, almeno per ora.)

Per le grandi testate USA, dunque, in tempo di crisi contano sempre meno il pluralismo e la libertà d’espressione, mentre la sottomissione assurge a virtù patriottica, come spiega lucidamente un recente articolo di Norman Solomon, The Conventional Media Wisdom of Obedience. Scrive tra l’altro il giornalista e media-critic: “…la guerra in Iraq non può evitare di mettere di fronte agli Americani una tacita aspettativa che raramente ottiene lo scrutinio dei media: l’obbedienza.” Analisi ulteriormente documentate e ampliate da Solomon in un importante volume di recente uscita, Target Iraq: What the News Media Didn’t Tell You, che vanta la puntuale prefazione dello storico Howard Zinn.

A tenere sotto stretta osservazione i media USA, ci pensa altresì uno dei tanti blogger in circolazione, — emanazione di Deborah Branscom, redattrice presso Newsweek — che nei giorni scorsi ha dedicato un ottimo pezzo al rapporto tra la grande informazione e la guerra. Vi si racconta ad esempio del recente rifiuto da parte di numerosi canali TV (CNN inclusa) ad accettare e trasmettere una inserzione a pagamento contro la guerra. Oppure, si insiste sulla necessità di stare in guardia sui probabili atti di censura imposti dal Pentagono. Il tutto con la solita ricchezza di link per i riferimenti del caso, inclusi parecchi a siti non-statunitensi. Chiaro, in un simile contesto chi può cerca d’informarsi di più meglio al di fuori della solita brodaglia offerta dagli outlet nazionali. (Già quelli italiani aiutano parecchio in questi frangenti, il che è tutto dire). Necessità confermata dalla stessa Deborah Branscom: “Considerata la timidezza con cui la gran parte degli organi d’informazione statunitensi hanno messo in dubbio le posizioni della Casa Bianca sull’Iraq, non mi sorprende se gli Americani seguano testate straniere per avere una prospettiva sul conflitto che vada oltre le ‘freedom fries’.” (La scorsa settimana il Congresso ha ufficialmente cambiato nome alle patatine fritte, normalmente note come ‘french fries’, nel menu della bouvette parlamentare: ora si chiamano ‘freedom fries’).

Ecco quindi che nel mese di gennaio, secondo i dati di Nielsen/NetRatings, il 49 per cento dei visitatori unici sul sito del londinese Guardian Unlimited proveniva dagli Stati Uniti. Analogo l’incremento, ancora non definitivo, registrato a febbraio verso altri siti di news basati in Gran Bretagna, quali The Independent e la BBC. Simili dinamiche vengono efficacemente delineate in un articolo odierno su Wired News, in cui si cita tra gli altri Jon Dennis, vice-news editor del Guardian Unlimited, per il quale dopo l’11 settembre 2001 “sembra che i media USA non riescano più a riflettere con la dovuta chiarezza.” Rincara la dose Stephen Gilliard, il cui weblog NetSlaves riporta spesso notizie di fonti estere: “Pur se non tutte le testate si dimostrano affidabili, esiste un gap talmente ampio tra il modo in cui gli Americani vedono il mondo e gli altri paesi che diventa prezioso ricorrere a queste fonti d’informazione.”

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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