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Non si uccide così anche la radio via Internet?

08 Marzo 2002

Non si uccide così anche la radio via Internet?

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Le esose royalties per il webcasting proposte dalle autorità federali USA hanno già costretto alla chiusura le prime net-radio indipendenti. Ennesima ripercussione del nefasto Digital Millennium Copyright Act.

Non è certo un mistero come su Internet vadano restringendosi gli spazi per la libera circolazione delle idee. Un processo in atto da qualche tempo, a partire dalla drastica riduzione di opzioni cosiddette ‘free’ e in quanto tali utilizzate dall’utenza generale. Chiusi o ristrutturati noti siti basati sull’offerta di servizi email gratuiti, con nomi ‘storici’ quali Bigfoot, AltaVista e ora anche Mail.com, alle prese con la rampante diminuzione degli introiti pubblicitari e dei capitali in circolazione. Per non parlare ovviamente delle norme restrittive in tema di hacking e cyber-rights già passate o in discussione in ambito legislativo. Uno scenario frastagliato che non interessa soltanto gli USA, pur prendendo chiaramente piede sulla spinta degli eventi dell’11 settembre scorso. Lo conferma il nuovo giro di vite, stavolta camuffato da dazi sul copyright, proposto in questi giorni da una commissione federale nei confronti di un fenomeno online anch’esso sinonimo di fruibilità libera e gratuita: il webcasting, le trasmissioni audio digitali.

Un fenomeno che aveva preso piede da metà anni ’90, con l’avvio di numerose emittenti ‘Internet-only’, di fianco alle trasmissioni web di stazioni commerciali già presenti sulle comuni frequenze AM e FM. A trarne maggior vantaggio sono state ovviamente le radio locali e autogestite, con dati d’ascolto relativamente eccezionali considerato il target ristretto. È ad esempio il caso di KBAC a Santa Fe, New Mexico, per cui non è insolito avere in contemporanea 100 ascoltatori online. Pur non dando alcun fastidio ai grandi network, tuttavia ecco che simili situazioni spesso al margine della sopravvivenza ora devono affrontare ulteriori rischi. Due settimane fa il Copyright Arbitration Royalty Panel (CARP) ha diffuso un rapporto in cui delinea l’introduzione di nuove tariffe sui diritti della musica trasmessa online. Per ogni pezzo in streaming audio l’emittente sarebbe chiamata a sborsare sette cent per ciascun ascoltatore. Non è molto? Spiega Ira Gordon, direttore di KBAC FM: “Ciò vuol dire che passando dieci canzoni all’ora, e in genere noi arriviamo fino a 12, se sul sito ascoltano una media di 100 persone, si arriva a 168 dollari al giorno. In un anno si superano tranquillamente i 61.000 dollari.”

Va aggiunto che le radio operanti solo su Internet verrebbero tassate il doppio, 14 cent per ascoltatore e per canzone. Mentre le cosiddette community e college radio la cifra pagherebbero due cent, cinque le emittenti non-profit. Invece per il webcasting commerciale per ‘micro-audience’ non quantificabili si prevede comunque un minimo di 500 dollari l’anno. Senza dimenticare l’effetto retroattivo di tali tariffe, a partire dal 1998. Tutto ciò, è bene sottolinearlo, andrebbe ad assommarsi alle royalty normalmente a carico delle varie emittenti digitali. Le quali oggi sono tenute a conteggiare i passaggi e dare il dovuto a BMI e ASCAP, le due mega-organizzazioni che da sempre si occupano di raccogliere e girare i proventi sul copyright ai rispettivi autori. Ma nel 1995 le prime modifiche a tale sistema avevano imposto alle radio-web di pagare non solo gli autori ma anche le case discografiche proprietarie dei diritti ‘tradizionali’. Una procedura poi perfezionata nel 1998 con il controverso Digital Millennium Copyright Act (DMCA), che stabilisce precisi disposizioni onde garantire l’effettiva applicazione dell’iter vessatorio.

Una serie di imposizioni volute soprattutto, manco a dirlo, dalla Recording Industry Association of America (RIAA), i cui possenti tentacoli mirano a imporre precise restrizioni sullo streaming online e in genere sui media digitali (vedi le diatribe legali contro Napster e affini). Anzi, la quota-base di 0,0014 dollari rappresenta appena il 35% della tariffa inizialmente richiesta dalla stessa RIAA. La quale nella press release diffusa all’indomani delle nuove proposte specifica tra l’altro: “È evidente sia a noi che al panel federale come le radio-web di qualunque portata potranno permettersi di pagare queste cifre e dar vita al proprio business su Internet.” Nulla di più lontano dalla realtà.

Tutta una serie di entità autogestite sarebbe costretta a fronteggiare ulteriori tasse sul copyright tutt’altro che irrisorie, oltre che a dover riempire cumuli di scartoffie. Già, perché altre norme proposte impongono la stesura dell’elenco dettagliato dei pezzi musicali trasmessi via Internet, con tanto di nome dell’artista e della canzone, titolo e album da cui è tratta, etichetta discografica, numero di catalogo, data e orario della trasmissione, fuso orario dei diversi ascoltatori sintonizzati online. “Forse non è troppo complicato per quelle stazioni commerciali che ogni giorno trasmettono continuamente gli stessi 40 pezzi,” spiega il responsabile di una radio FM sulla East Coast. “Ma se c’imporranno davvero simili disposizioni, molti di noi diranno addio all’audio digitale.”

Prospettive poco rosee, quindi, che a dicembre hanno costretto community radio come KRCL a Salt Lake City – il cui sito offre un’interessante carrellata sulle recenti Olimpiadi invernali – a bloccare la programmazione via Internet. Motivo? “Attualmente non siamo in grado di rispettare le disposizioni previste dal DMCA.” Identica la scelta forzata di una dozzina di emittenti piccole ma vitali per gli utenti in loco, emittenti cui Internet (accoppiata, in alcuni casi, con la costosa banda larga) aveva promesso nuova linfa, magari racimolando qualche contratto pubblicitario in più. Anche se, attenzione, non è ancora detta l’ultima parola. I vari network e soprattutto la Digital Media Association stanno informando come possono, qualche sporadico trafiletto è apparso perfino su alcuni quotidiani locali. Per aggiornamenti e dettagli sulla campagna è attivo il il sito-slogan “S-O-S Save Our Stream” l’invito generale è quello di inviare lettere di (educata) protesta al Copyright Office e, meglio, al proprio rappresentante parlamentare. A tale ufficio spetta la revisione del rapporto del CARP per poi raccomandare al Congresso l’accettazione, la ricusazione o la modifica delle tariffe ivi incluse e relative disposizioni. La decisione finale dovrà comunque arrivare entro il 21 maggio, pensa la decadenza della normativa proposta.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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