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Borsa impazzita, Linux ne risente

28 Aprile 2000

Borsa impazzita, Linux ne risente

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Le reazioni del mondo open source all'altalenarsi di Wall Street.

Notizia clou della scorsa settimana rimane sicuramente l’andamento a dir poco schizofrenico di Wall Street. Dopo aver toccato il massimo storico positivo il 10 marzo, nei soli sette giorni passati l’indice composito del Nasdaq ha registrato il record negativo più ampio. La picchiata ha toccato perdite del 30 per cento, salvo improvvise impennate nelle 24 ore successive, e le montagne russe sono all’ordine del giorno. D’obbligo la domanda: sta forse per scoppiare la bolla Internet? Nessuno può dirlo con certezza. È peròvero che su quotidiani e telegiornali statunitensi si sono affollati esperti d’ogni risma pronti a spiegare il trambusto, o meglio a provarci.Qualche sera fa, nel TG serale più seguito, quello del network pubblico PBS (Public Broadcasting Service) il panel dei presenti tendeva a incolpare la combinazione di una miscela a quanto pare assai esplosiva: emotività umanae volatilità del mercato. In altri termini: giocare in borsa è sempre un grosso rischio, ancor più per chi punta al day trading.

Comunuque andrà a finire, occorre armarsi di una sana dose di scetticismo sulle bolle high-tech, a Wall Street come a Piazza Affari. Insieme ad una serena disamina di alcune conseguenze immediate dell’attuale caos. Intanto,il repentino dietro-front di nuove società che si scaldavano i muscoli a bordo campo. Ben 16 le entità che nei giorni scorsi hanno rinviato la propria IPO (Initial Public Offering) avviata da tempo. Provocando così un mancato volume di affari pari a 1,39 miliardi di dollari e portando a oltre una ventina le società high-tech che da inizio anno hanno preferito rinunciare. Nome di spicco tra quelle di fine aprile è senz’altro AltaVista, quotato motore di ricerca ideato da Compaq e inglobato mesi addietro dalla società di holding CMGI. Da notare che quest’ultima vanta investimenti in una cinquantina di aziende Internet, incluso uno dei maggiori rivali di AltaVista, Lycos Network. Se questo è l’andazzo, non deve quindi destare eccessivo stupore il ripensamento, appena due settimane fa, di una società Linux relativamente minore pur se dalle ampie potenzialità: Linuxcare.

Salita agli onori della cronaca verso la metà del 1998 per i cospicui investimenti ottenuti dal maggior venture capitalist di Silicon Valley, la Kleiner Perkins, LinuxCare basa il proprio business model, tipicamente, sull’offerta di assistenza e supporto per il software partorito dal mondo open source. Il successivo battage pubblicitario, montato soprattutto nei parterre delle prime LinuxWorldExpo, aveva un po’ intimorito la communityat large, sull’onda delle preoccupazioni per l’arrivo del big business”inquinante.” Ma in un certo senso ciò pareva in sintonia con i successi a Wall Street di Red Hat e poi VA Linux, rispettivamente in agosto e dicembre’99. E anche il recente stop all’entrata in borsa di LinuxCare trova giustificazione nel deprezzamento che non ha mancato di colpire le azioni di Red Hat, VA Linux (dai 128 dollari di febbraio agli attuali 56), Cobalte Corel (da 19,31 a 10 dollari). Con Caldera Systems che vi è entrata recentemente ma del tutto in punta di piedi.

Quel che pare invece destare qualche preoccupazione è l’annuncio, dato in contemporanea al rinvio dell’IPO, delle improvvise dimissioni del presidente e CEO di LinuxCare. La press release ufficiale si limita a informare sull’abbandono di Fernand Sarrat, per annunciare la”formazione di un nuovo ufficio per il CEO,” dilungandosi poi con le biografie dei quattro nuovi componenti di tale ufficio. Brevi note apparse sul solito Slashdot.org segnalavano come motivazione di fondo qualche “irregolarità” nella spartizione delle entrate, mentre Art Tyde, fondatore di LinuxCare si è affrettato a ribadire piena fedeltà ai”valori della comunità e a quelli per cui la società venne creata.” Il forum che ne è seguito ha rapidamente superato i 100 messaggi, concentrandosi per lo più sulla scena Linux al Nasdaq. Non sono mancati, com’è d’obbligo i toni pesanti ma franchi su capitalizzazioni, arricchimenti e così via. Qualcuno ha scritto che Bob Young (boss di Red Hat) si sarebbe disfatto di proprie azioni per un valore di circa 60 milioni di dollari. Qualcun’altro ha ribadito che nel mercato Linux, dove “le motivazioni emotive e la religione giocano un ruolo considerevole,” si tende troppo spesso ad auto-lodarsi per scrollarsi invece di dosso ogni evento negativo incolpandone malevoli fonti esterne alla community.

Il dibattito, come sempre, è aperto e circolare, oltre che “hot”. Ma probabilmente è vero che non occorre preoccuparsi più di tanto. Come giàaccaduto in precedenza rispetto ai “pericoli” derivanti da eccessiva commercializzazione e fiumi di denaro in circolazione nel mondo Linux,difficilmente la comunità di programmatori e entusiasti subirà influssi negativi dagli attuali sommovimenti. Ciò vale sia per la situazione non rosea dei titoli open source sia riguardo alle manovre poco chiare all’interno delle società quali LinuxCare. Il cui caso viene comunque analizzato da Andrew Leonard su Salon.com come esempio del fatto che “l’amore per Linux non è in vendita.” In pratica, nonè affatto detto che i venture capitalist siano in grado di comprendere o tantomeno favorire il volo del pinguino nel mondo dell’alta finanza.

Nel frattempo, però, ben oltre le vicende borsistiche e quant’altro, rimangono in piedi cocenti realtà di fatto. Le quote di mercato conquistate da Linux e dal software open source proseguono in salita. I Web server basati su Apache continuano a essere tra i più popolari in Internet. Si insiste a lavorare sull’interfaccia grafica Linux per i patiti del Macintosh. Mentre vanno facendosi sempre più popolari linguaggi di programmazione e di script quali Perl e Python, garantiti dal marchio DOC open source. Posizioni certamente convalidate dagli addetti ai lavori. Però però…qualche ombra rimane. Ed è bene metterla allo scoperto.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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